Fernando III di Castiglia e León, il re santo
(Racconto su San Fernando, di Silvana La Valle che è stata nostra cliente a Siviglia)
PREMESSA
In occasione del mio soggiorno a Siviglia nell’ottobre del 2016, mi sono imbattuta nell’affascinante figura di
Fernando III, Re e Santo. Al mio rientro in Italia ho iniziato a scrivere una breve storia su di lui e sulla Reconquista. Purtroppo è molto scarsa la letteratura su questo grande monarca spagnolo perfinoa Siviglia!
Comunque, dopo alcune ricerche, mi è stato possibile stendere questa breve opera che unisce la storia autentica alla fantasia. Confido che la leggerete con piacere.
L’autrice
RITRATTO DI UN RE
Nella cattedrale di Siviglia c’è un dipinto di Fernando III eseguito da Francisco Lecaros. Ci presenta il re in piedi, con la spada sguainata nella destra (simbolo del Re Guerriero) ed un globo (il mondo) nella sinistra. E’ un sovrano nel pieno della maturità e del vigore che indossa un’armatura e porta sulle spalle uno splendido mantello.
E’ un uomo altero e non particolarmente bello: ha capelli scuri, viso e naso lunghi, mascella quadrata e volitiva, sguardo serio, occhi e labbra grandi. Alle sue spalle si ergono le mura di Siviglia, città di sua conquista.
SI RIDESTI IL LEON DI CASTIGLIA
di Giuseppe Verdi
Si ridesti il leon di Castiglia
e d’Iberia ogni monte e ogni lito
e conforme al tremendo ruggito,
come un dì contro i Mori oppressor.
Siamo tutti una sola famiglia
pugnerem con le braccia e coi petti;
schiavi inutil più a lungo negletti
non sarem fin che vita abbia il cuor.
Morte colga o n’arrida vittoria,
pugnerem ed il sangue de’ spenti
nuovo ardire ai figliuoli viventi
forze nuove al pugnare darà.
Sorga alfine radiante di gloria
sorga un giorno a brillare su noi,
sarà Iberia feconda d’eroi
dal servaggio redenta sarà,
redenta sarà, redenta sarà.
PREAMBOLO
Le bandiere verdi del Profeta avevano invaso la Spagna nel 711 frantumando il Regno Visigoto.
Due anni dopo era scomparsa ogni resistenza, poiché gli emiri erano già a Cordoba e a Toledo.
Siviglia, Tarragona e Mérida assistettero indifferenti alla cacciata dei Visigoti trinitari.
Al di là della religione, i musulmani che giunsero nella Penisola Iberica erano uniti da antichi legami tribali:vincoli di sangue e di costumi manifestati da una profonda solidarietà di gruppo( ‘asabiyya). La guerra si esprimeva soprattutto attraverso la pratica ghazwa:azione offensiva relativamente rapida, rivolta contro carovane o clan rivali e regolata da un rigido codice di comportamento in cui prevalevano l’ardimento e l’abilità. L’islam disciplinerà ulteriormente tali pratiche militari trasformando i conquistatori arabi in una casta militare elitaria chiamata ad ampliare le conquiste e a presidiare le aree soggiogate.
I musulmani pensarono che la via oltre i Pirenei fosse aperta ed infatti fu facile per i loro eserciti attraversarli e presentarsi nelle fertili pianure francesi ove l’emiro Abd-ar-Rahman fu sconfitto ed ucciso.
Poi gli Arabi tornarono in Spagna dove eressero castelli e fortezze all’interno delle cui mura fecero giungere la preziosa acqua che alimentava orti, fontane e giardini.
Le caratteristiche necessarie di qualsiasi agglomerato urbano erano quindi sempre l’approvvigionamento idrico e la presenza di una cinta muraria. Pozzi, acquedotti o cisterne per raccogliere l’acqua piovana erano a base della pianificazione urbana, seguivano poi gli elementi di ordine difensivo, la sicurezza delle vie di comunicazione e la fortificazione della città.
La prima preoccupazione degli architetti islamici in Spagna fu incanalare l’acqua e costruire fontane ed aiuole fiorite dove, prima che loro arrivassero, aride pietre biancheggiavano sotto il sole
La Spagna moresca è ancor oggi superba a Granada con il celebre complesso dell’Alhambra che si affianca all’alameda, un fresco vallone di fontane ed alberi secolari e con l’Alcazaba e l’Alcázar, fortezze e regge solari.
A Siviglia, circondata dagli orti, sulla riva sinistra del Guadalquivir, è tutto un susseguirsi di raffinatissimi monumenti: la Giralda, l’Alcázar, i giardini tappezzati d’aranceti e palmeti.
A Toledo si possono ammirare l’Alcázar, l’Iglesia de San Román, che fu moschea, la Puerta del Sol, il Paseo della Randa Nueva.
Gli Arabi fecero quindi della Spagna un giardino ed essa ne fu debitrice fino all’epoca di Fernando III con la sua Conquista o Reconquista che dir si voglia.
Essi diedero al mondo occidentale scienziati, letterati, delicatissimi poeti; grande era quindi il loro sapere, ma per il Re Santo, essi erano nemici della fede cristiana e si dovevano combattere e cacciar via dalla Spagna. La Spagna quindi ai Castigliani! Il musulmano era definito nemico dell’intera cristianità. Tale idea passò nella Penisola Iberica non solo attraverso i canali diplomatici ecclesiastici e la produzione cronachistica erudita, ma trovò una vesta eco anche nella produzione trovadorica, molto diffusa grazie alle vie di pellegrinaggio compostelane.
Tra i secoli XII e XIII furono tanti gli autori di canti di crociata dedicati alle imprese di Gerusalemme, ma anche ai pericoli che giungevano alla Spagna dall’Africa dove premevano gli eserciti arabi “armati contro la fede di Cristo”.
L’immagine più diffusa della battaglia tra cristiani e musulmani era quella di Santiago, il Matamoros, cioè uccisore dei mori, che appariva alla testa di una schiera angelica, montando un cavallo bianco e brandendo una spada scintillante. Dalla parte dei musulmani v’era invece Satana, con il volto inevitabilmente nero e la lunga catena che legava ormai i mori alla falsità dell’eresia.
RITRATTO DI UN RE
Nella cattedrale di Siviglia c’è un dipinto di Fernando III eseguito da Francisco Lecaros. Ci presenta il re in piedi, con la spada sguainata nella destra (simbolo del Re Guerriero) ed un globo (il mondo) nella sinistra. E’ un sovrano nel pieno della maturità e del vigore che indossa un’armatura e porta sulle spalle uno splendido mantello.
E’ un uomo altero e non particolarmente bello: ha capelli scuri, viso e naso lunghi, mascella quadrata e volitiva, sguardo serio, occhi e labbra grandi. Alle sue spalle si ergono le mura di Siviglia, città di sua conquista.
NASCITA E PRIME BATTAGLIE DI FERNANDO III
Fernando III il Santo, Re di Castiglia e León, era figlio del re di León, Alfonso IX e della sua seconda moglie, doña Berenguela di Castiglia, figlia di Alfonso VIII ed Eleonora Plantageneto.
Il futuro Santo Re nacque per alcune fonti nel 1199 a Zamora, mentre per altre venne alla luce a Bolaños de Calatrava, località che era stata concessa dal nonno Alfonso VIII di Castiglia a Berenguela dopo la vittoria nella battaglia di Las Navas de Tolosa.
Quella fu una grande battaglia contro i musulmani almohadi che furono definitivamente indeboliti. Dopo tale battaglia, il 5 aprile 1212, papa Innocenzo III inviò una carta agli arcivescovi di Toledo e Santiago che conteneva un’esortazione alla pace tra i re cristiani, ricordando la necessità di far fronte comune contro i nemici della Croce di Cristo, i quali non solo aspiravano alla distruzione della Penisola Iberica, ma soprattutto alla devastazione dell’intera umanità.
Alfonso IX e Berenguela si erano accampati in una boscaglia quando si stava aprendo un percorso da Salamanca a Zamora.
Comunque sia Fernando III nacque in un ostello a Peleas de Arriba, una cittadina della zona.
L’ostello era stato fondato da un religioso di nome Martin Zamorano Cid per aiutare viandanti e pellegrini che si avventuravano sulla Via de la Plata.
Martin Zamorano era un uomo pio e coraggioso con un volto sereno ed incavato, due occhi grandi ed espressivi sormontati da sopracciglia cespugliose. Egli aveva fatto edificare l’ostello su fondamenta molto antiche. Le lastre che avevano pavimentato il vecchio cortile, tutte spezzate e sbrecciate, erano state sostituite
con altre grazie all’indefesso lavoro dei frati coadiuvati saltuariamente da forze reperite sul luogo. Insieme avevano alzato un grande portale ad arco al posto di quello crollato, oltre il quale si stendeva un prato con massi di granito affioranti nei cui interstizi crescevano, oltre all’erba, piccoli arbusti verde scuro.
Zamorano, basso, tarchiato, col naso appuntito, barba e capelli radi, dirigeva con efficienza quel luogo.
Berenguela diede alla luce Fernando aiutata da una vecchia levatrice dal mento aguzzo, il dorso leggermente incurvato, una cuffia bianca sulla testa e che sapeva bene il fatto suo.
La puerpera rimase all’ostello il tempo necessario per rimettersi in forze dopo le fatiche del parto. In quel luogo, però, si sentiva in pace e a casa ed avrebbe voluto rimanervi a lungo.
Di fatto però anche quell’ostello era molto trafficato in quanto erano sempre più i pellegrini europei ed i coloni francesi che partecipavano non solo ai pellegrinaggi verso Santiago, ma anche alla repoblación di città e villaggi spagnoli.
Nel 1204 Papa Innocenzo III annullò il matrimonio tra Alfonso IX e Berenguela a causa del loro grado di parentela.
Berenguela ritornò così alla corte del padre con tutti i figli, eccetto Fernando che rimase alla corte di León con il padre Alfonso IX.
Nel 1217, alla morte del piccolo Enrico, re di Castiglia e figlio di Alfonso VIII, il trono passò a Berenguela che vi rinunciò a favore del figlio Fernando III, il quale dovette combattere contro il padre che ambiva al trono ed alla corona di Castiglia ed era spalleggiato dai nobili castigliani e dalla potente famiglia Lara.
I Lara assediarono un castello ad Antillos Campos dove si era rifugiata Berenguela ed in tale occasione il giovane Fernando dimostrò il grande amore che nutriva per la madre mandandole un esercito di millecinquecento uomini che la fecero fuggire da quel luogo.
In quanto nipote di Alfonso di Castiglia ed ex marito di Berenguela, Alfonso IX voleva assolutamente impadronirsi della corona di Castiglia, regno vasto e centrale della Penisola Iberica.
Non essendo riuscito però a conquistarla, nel 1218 egli fu costretto a patteggiare una tregua con Berenguela impegnandosi a non portare più guerra alla Castiglia, ma diseredò il figlio Fernando della corona di León.
Fernando III l’ottenne comunque alla morte del padre, poiché il fratello, Alfonso de Molina, l’aveva rifiutata. Questo fratello gli fu fedelissimo e sempre accanto nelle continue campagne contro i musulmani e lo confortò e sorresse nei momenti più dolorosi della sua vita.
LA SPADA DI FERNANDO
Non sappiamo se Fernando III fosse poi così austero come nei quadri che lo rappresentano, ma indubbiamente una serietà e forza irresistibili emanavano da tutta la sua persona.
Portava al fianco una spada divenuta leggendaria ed i guerrieri che lo seguivano in sella a veloci cavalli procedevano con le teste alte e fiere. Portavano a tracolla un possente arco con faretra colma di frecce ed al fianco una spada, ma non splendida e portentosa come quella del loro sovrano.
Uomo del suo tempo, Fernando III sentiva vivo nel cuore l’ideale cavalleresco e profondamente europeo di virtù cristiane e civili.
Tre giorni prima delle sue nozze con Beatrice di Svevia, il 27 Novembre del 1218, dopo aver fatto la veglia d’arme nel monastero della Huelgos di Burgos, si nominò di sua propria mano cavaliere brandendo la spada che gli avrebbe dato tanta gloria.
Solo Dio sa ciò per cui egli pregò e su cui meditò nella notte in cui si preparava al matrimonio, passo importante che prese molto sul serio.
Si diceva che, dopo la sua morte, la spada prodigiosa, brandita in tante battaglie, guarisse dalle infermità coloro che la baciavano.
La spada possedeva gran virtù e, grazie ad essa, il re era riuscito a conquistare Siviglia.
Chi si recava alla cappella reale il giorno della festa del Santo Re guadagnava un anno e quaranta giorni d’indulgenza.
Il mito della spada miracolosa sembra essere analogo a quello dell’Apostolo Giacomo e dei suoi interventi a favore dei cristiani.
Forse sono stati entrambi un espediente per incrementare il numero dei visitatori e pellegrini alle rispettive tombe e compensare così il crescente laicismo della vita in Occidente, nonché per rimpinguare le casse ecclesiastiche. Gli storici asseriscono con certezza i lauti incassi del clero che aveva creato il voto di Santiago, gli anni giubilari, le indulgenze etc.
Ciò succede ancor oggi con i viaggi turistici nei luoghi di culto e quindi non dobbiamo meravigliarci se le cose andavano così anche allora.
Ma torniamo alla spada di Fernando! Si dice che l’invincibile lama fosse stata forgiata in oriente e gli fosse stata donata quando era adolescente prima che egli diventasse sovrano di Castiglia e León.
Era una spada damascata in acciaio temprato tolta da un re cristiano ad un re saraceno. I profili taglienti convergevano eleganti in una punta aguzza che emanava un’aura di irresistibile potere. Creata per le violente emozioni della battaglia, per porre fine alla vita dei nemici, era però di grande bellezza.
Sembra che l’elsa fosse d’argento brunito ed il fodero, di pelle liscia come seta, era attaccato alla cintura da una pesante fibbia.
La mano del re aderiva perfettamente all’elsa come se essa fosse stata fatta appositamente per lui.
Parliamo di verità, di semplice tradizione o di leggenda?
Fernando con la sua spada seppe imporsi in battaglia anche se l’Oriente conosceva assai meglio e da tanto tempo tecniche straordinarie da fare dei suoi guerrieri uomini invincibili.
Non si trattava solo della forza straordinaria della spada, ma anche dell’astuzia strategica del re, coadiuvato da opportuni aiuti di altri Stati d’Europa e dall’indubbio carisma che gli proveniva dalla fama di Re Crociato e di valoroso guerriero.
Comunque sia, tanta è l’importanza che riveste la spada di Fernando III che ancor oggi, nel giorno della festa di San Clemente ( 23 Novembre) che commemora la conquista della città di Siviglia nel 1248, ha luogo tutto un cerimoniale all’interno della Cappella Reale dove si conserva il corpo incorrotto del re.
UN SOGNO RIVELATORE PER FERNANDO
Prima della battaglia risolutiva contro il padre, Fernando ebbe un sogno rivelatore. Sognò un uomo che preparava pozioni erboristiche. Pensò subito che fosse quello che gli aveva ridato la salute quando era piccolo grazie anche alle ferventi preghiere della madre Berenguela alla Madonna affinchè gli facesse la grazia della guarigione.
L’uomo del sogno era vestito con un rozzo abito di tela e pelli , portava un cinturone cui era legato un coltello affilato e gli era sembrato un cacciatore. Questi gli si era rivolto salutandolo con un inchino, poi gli aveva posto sul capo la corona reale.
“ Mamma, ho fatto un sogno molto strano! Erano le prime luci del giorno quando mi è apparso un cacciatore che mi ha porto la corona reale o meglio, me l’ha poggiata sulla testa.
E’ forse lo stesso uomo di cui mi hai più volte parlato e che mi ha guarito con i suoi infusi di erbe? Anche se sono passati parecchi anni da allora vorrei ringraziarlo personalmente e sincerarmi che sia veramente l’uomo del sogno. Dove posso trovarlo?”
“Conosco il luogo dove abita. La sua casupola di tronchi d’albero è a poco più di un’ora a cavallo da qui verso Granada. Recati da lui di buon mattino prima che esca a caccia o a raccogliere le erbe.
Pedro è un uomo buono, molto sensibile e di poche parole. Se non ti riconoscerà sarai tu a svelargli chi sei e la ragione per cui vai da lui” , gli rispose Berenguela.
Lei aveva insegnato al figlio una particolare preghiera alla Madonna, raccomandandogli di recitarla sempre nelle necessità della vita.
La riporto qui di seguito poiché è molto bella” Oh fiel medianera entra Dios y los hombres, puerta de la gracia y puerto del naufragio que el mundo padeció! Gobierna los afectos de mi alma, y destierra los malos resabíos, hasta que no haya en ella sino una special gracia del Espiritu Santo, para que yo ame, como debo, a Tu Santissimo Hiyo y Redentor mio, Jesucristo, y así salga en paz de las tormentas de esto mundo y descanse en los umbrales de la que es puerta del Cielo, gozando para siempre la quietud del puerto deseado”.
Questa orazione era la preferita di Fernando III nelle notti di veglia prima delle battaglie quando lo assalivano tanti dubbi sulla vittoria.
Fernando si levò molto prima del sorgere del sole, si sciacquò il viso e rinfrescò braccia e mani con l’acqua di un catino, si vestì elegantemente, ma non prese con sé la spada, bensì un pugnale ricurvo con uno zaffiro incastonato nell’elsa. Poi, scortato da due cavalieri armati, partì quando i raggi del sole erano ancora pallidi ed avari di conforto.
Fernando, giovane scattante e muscoloso su un cavallo molto veloce, era stato istruito ed addestrato molto bene al combattimento e si era subito mostrato più abile degli altri allievi. Gran cavallerizzo, non temeva gli avversari poiché aveva riflessi pronti, una mente acuta e sapeva prevedere le mosse del nemico.
Quella mattina cavalcava da un’ora buona su un terreno bruno e brullo dove l’erba era rada e secca ed il panorama asciutto e selvaggio. Da lontano si scorgevano gruppi di case rurali sparse e alcune costruzioni che formavano un piccolo villaggio.
Qua e là appariva qualche rado albero e, mentre il sole cominciava a scaldare la terra, il cielo era diventato chiaro e sgombro di nubi.
Fernando seguiva la via indicatagli da Berenguela, la più breve per arrivare dal vecchio erborista.
Gli alberi, che il giovane aveva scorto in lontananza, avevano assunto la forma e le dimensioni di grossi faggi con i rami dolcemente inclinati verso tozze casupole di legno dai tetti bassi. Poco più avanti scorreva un ruscello povero d’acqua in riva al quale crescevano salici e rose canine. Nell’aria si avvertiva un forte odore di legna.
Fernando individuò presto il luogo ove sorgeva la capanna di Pedro, un po’ isolata e circondata da terra incolta.
Scese da cavallo, imitato dalla scorta, che però restò rispettosamente a debita distanza dalla casupola. I tre cavalli furono legati ad una staccionata rudimentale costruita non lontano dai pochi gradini che salivano alla porta dell’abitazione del cacciatore.
Era tutto stranamente tranquillo, quasi si fosse in un mondo diverso e senza tempo.
Egli bussò energicamente alla porta e sentì un rumore di passi che si avvicinavano ed il chiavistello scivolare.
Pedro non si diede la pena di chiedere: “ Chi è?”, ma si affacciò all’uscio con fare disinvolto ed un sorriso amichevole.
Fernando non si aspettava di vedere un uomo robusto con indosso una camicia di cotone ed uno strano grembiule. Dalla cintola gli pendeva un coltello lungo ed affilato. Egli aveva il volto bruno, certamente scurito dalla lunga esposizione al sole ed alla calura, occhi neri, grandi ed espressivi.
Trovandosi a tu per tu con un nobile giunto inaspettatamente, fece un profondo inchino e lo invitò ad entrare ed a sedersi su una panca di legno posta contro la parete di fronte alla porta.
L’abitazione era spaziosa e scrupolosamente pulita sebbene l’uomo non fosse sposato e dovesse provvedere personalmente alle faccende domestiche.
Si sentì ragliare un asino, imbrigliato ed attaccato ad un carretto. Come tutte le mattine egli aspettava il padrone che era solito caricare erbe, cacciagione ed altre mercanzie da vendere o regalare ai bisognosi della zona. Lo aspettava pazientemente in una piccola stalla col tetto di paglia che era stata costruita sul retro della casupola mentre, dietro un muretto, alcune caprette brucavano e belavano.
Nella stanza aleggiava un acuto odore di erbe: alcune alloggiavano in contenitori disposti su mensole rudimentali, altre pendevano da ganci appesi alle basse travi del soffitto oppure avevano trovato posto in ciotole e vasi, come arnica, manzanilla e radici di galondrina. Fernando notò anche un mortaio ed un pestello, strumenti indispensabili a qualunque erborista esperto.
Per rompere il ghiaccio il giovane cavaliere esordì spiegando il motivo della sua visita. Raccontò il sogno particolare, quasi una visione, che lo aveva a dir poco sorpreso e si disse certo che l’uomo del sogno fosse proprio lui, Pedro, che lo aveva guarito molti anni addietro e che nel sogno gli aveva posto sul capo la corona di sovrano.
Sulle prime l’uomo rimase basito e fortemente interdetto, ma poi il volto gli si illuminò di gioia e corse ad abbracciare il giovane dicendo: “ Perdonate la mia titubanza, nobile Fernando! Allora eravate un bambino, ora siete un uomo per giunta un cavaliere!
Sì, sono io colui che vi ha curato! Vostra madre, donna forte e timorata di Dio, era preoccupatissima per la vostra salute e, un po’ grazie alle sue preghiere alla Vergine, un po’ con l’aiuto delle mie erbe, avete riacquistato la salute. Sapete, ancor oggi mi sforzo di lenire tante sofferenze del corpo con i rimedi che Madre Natura mette a nostre disposizione. Nei dintorni mi conoscono come Pedro il guaritore, vivo di caccia e delle offerte spontanee della gente. Tacque ed attese umilmente che Fernando parlasse.
Il giovane gli disse gentilmente che lo ringraziava di tutto cuore per il suo aiuto di allora, che era in procinto di ingaggiare battaglia contro suo padre, Alfonso IX, che voleva togliergli il trono di Castiglia. Sospirando aggiunse:” Mi avete offerto in sogno la corona e vengo quindi a chiedervi se ho buone probabilità di vittoria”.
Con voce calda e rassicurante Pedro rispose:” Don Fernando, vi saluto già come re di Castiglia. Non dovete nutrire alcun dubbio in proposito. Vincerete non solo contro vostro padre, ma anche in molte altre battaglie a venire!” Ciò detto si inginocchiò davanti al giovane e gli baciò la mano. Fernando, che non era affatto superbo, si sentiva emozionato ed imbarazzato. Si alzò quindi prontamente dalla panca, estrasse un sacchetto di pelle che teneva sotto il corto mantello da viaggio e lo depose sul tavolo di legno dicendo:” Queste monete sono per voi, per compensarvi di tutto il bene che avete fatto e che farete”. Quindi posata una mano sulla spalle di Pedro, si congedò in fretta senza che il buon uomo avesse il tempo di offrirgli uno spuntino.
Mentre si avviava verso il cavallo Fernando vide una donna che gettava delle briciole agli uccelli in un’aia vicina. Dagli alberi intorno volavano giù i merli facendosi strada per riuscire a mangiare qualcosa anche loro. La massaia dava il cibo a tutti indistintamente ed i volatili la circondavano.
Quella scena fece meditare il giovane cavaliere sulla bontà di Dio che si prende cura di tutte le sue creature ed in cuor suo Lo ringraziò.
La luce del sole sfavillava ora sullo zaffiro del pugnale che emanava splendidi riflessi.
Tutti i dubbi di Fernando erano scomparsi come nebbia trafitta dai raggi del sole e così, il futuro re, seguito dalla scorta, intraprese la via del ritorno.
FERNANDO III: GUERRIERO, COLONIZZATORE, UOMO DI DIRITTO.
Il sogno di Fernando divenne realtà e fu re di Castiglia e León. Le sue imprese di guerra furono quasi tutte volte a riconquistare l’Andalusia e la Murcia.
Gli assedi di Cordoba, Jaén e Siviglia e l’assalto a molti altri centri fortificati minori assursero a grandezza epica.
Il suo regno ebbe la fama delle conquiste che lo accreditarono come re intrepido, costante e scaltro nell’arte della guerra. Sotto tale aspetto Fernando III può paragonarsi al consuocero, Guglielmo il Conquistatore. Infatti gli assedi delle grandi località venivano portati avanti come incursioni o “ cavalcate “ con forze agili e scelte reclutate nel paese. La “cabalcada”, infatti, metteva a dura prova la resistenza del nemico e permetteva di portare a casa il bottino.
Fernando fu grande nella tattica di sorprendere e disorientare e nell’approfittare di tutte le occasioni di contrasto politico dell’avversario.
Studiava come organizzare al meglio le grandi campagne e cercava di attirare dalla sua parte ordini militari, nobiltà, clero e popolo, più che con la forza, con la persuasione, l’esempio personale e facendo intravvedere benefici futuri.
Trasse vantaggio dalla caotica situazione militare ed approfittò del vasto movimento di rivolta creatosi in al-Andalus contro gli Almohadi, in particolare nelle regioni di Murcia e Valencia.
Nel 1224 le sue truppe conquistarono e distrussero le città di Quesada, Priego e Loja.
Nel 1225 attaccò la regione di Cordoba ed altri centri tra cui Andújar. Poi, a forze riunite, potè continuare le sue campagne con risultati di enorme importanza valendosi anche dell’aiuto degli Ordini Militari e di Giacomo I°, re d’Aragona.
Nel 1228 si alleò con il califfo Almohade, Abū-al-Alā Idris al-Mamun e, quando questi venne detronizzato da un’insurrezione, mandò in Maghreb un esercito in suo soccorso perchè lo aiutasse a riconquistare il trono. Intanto Sancho III del Portogallo prendeva Elvas e nel 1230 cadevano Mérida e Badajoz.
L’impero almohade era ormai in ginocchio ed i musulmani se ne andarono in massa rifugiandosi nelle campagne.
Nel 1231 il fratello di Fernando III sconfisse sui campi di Xérez le forze di Banū Hūd. Fu un susseguirsi di vittorie : tra il 1232 ed il 1235 i Cavalieri degli Ordini di Alcántara e di Calatrava conquistarono Trujillo, Montiel, Medellin e Magacela.
Fernando assediò e prese Ubeda nel luglio del 1233 ed il 29 giugno 1236 fece capitolare Cordoba arresasi dopo aver atteso invano gli aiuti promessi da Banū Hud.
Il Santo Re si prefisse di ripopolare la città conquistata, impresa per nulla facile e che si protrasse per vari anni dati i suoi grandi spazi urbani e la mancanza oggettiva di mezzi di approvvigionamento.
Anche il re di Murcia gli si offrì vassallo e Fernando inviò il proprio figlio Alfonso a prendere possesso di quello stato.
Nel 1244 Fernando III si spinse fin sotto Granada e, assieme al re d’Aragona, portò a termine l’occupazione del territorio valenziano.
Vennero allora stabiliti i limiti territoriali con il Trattato di Almizra, firmato da Giacomo I° e da Alfonso, figlio di Fernando e futuro re di Castiglia, per delimitare le aree di espansione nel territorio musulmano compreso tra il territorio di Castiglia e quello d’Aragona.
Le terre a sud della linea Biar-Villajoyosa, incluso il regno di Murcia, rimasero in mani castigliane, mentre il regno di Valencia, che doveva spettare all’Aragona, venne consegnato definitivamente agli Aragonesi dopo il 1305 con i trattati di Torrellas ed Elche.
Fin qui un elenco di successi, vittorie ed annessioni che attestano come la vita del Santo Re trascorresse in un continuo guerreggiare.
Per commemorare le sue conquiste egli fondò nel 1246 l’Ordine della Concordia costituito da 154 cavalieri, tra i più nobili di Spagna. Tale Ordine si espanse nell’Impero Spagnolo e successivamente nel 1660 sotto gli Asburgo in Germania con il Gran Maestro margravio del Brandeburgo Ernesto von Zollner. Seguirono poi il Principe di Nassau e molti altri anche italiani, tra cui il Principe Virginio Orsini ed Arturo Della Scala dei Principi di Verona. L’attuale Gran Maestro è il Principe romano Augusto Petricca Giordani.
Dopo la capitolazione di Siviglia, Medina, Sidonia, Arcos, Cadice e Sanlucar, Fernando II cominciò a progettare una spedizione in Nord Africa per eliminare qualsiasi possibilità di attacco da parte dei musulmani. Infatti essi avevano conquistato l’Africa Settentrionale ed il limite sud rimarrà l’estensione sconfinata del deserto del Sahara.
Con la sua morte terminò il periodo delle grandi conquiste dei territori musulmani. Questo per quanto attiene alle sue vittorie, ma è opportuno citare un altro aspetto del suo operato di regnante, quello di fautore del diritto.
Per governare in pace e giustizia i suoi sudditi re Fernando intraprese la redazione di un Codice di Leggi di Castiglia, ultimato poi dal figlio Alfonso X che si impegnò in un grande sforzo legislativo introducendo anche in Spagna il Diritto Romano.
Alfonso X, detto “el Sabio” ( il Saggio), avrebbe raccolto la grande eredità territoriale di una Spagna ormai estesa fino agli estremi lembi territoriali e l’avrebbe rafforzata dotandola di nuovi strumenti amministrativi e di nuove prospettive culturali.
Furono redatti il Fuero Real, lo Speculo e le Siete Partidas( testi giuridici composti tra il 1256 ed il 1265), concepiti come codice legale e testo di consultazione per giudici e legislatori che trattava sostanzialmente delle relazioni con e tra i sudditi, sulla base di una chiara gerarchizzazione sociale.
Fernando III fu sempre affiancato da un Consiglio di dodici persone, uomini dotti e prudenti, per decidere su affari gravi ed importanti del suo regno ed evitò accuratamente i favoriti. Fece inoltre tradurre il Diritto Visigoto del Liber iudicum, da cui trasse il Fuero Juzgo, strumento legale per le nuove città conquistate.
Fueros e cartas pueblas erano testi legali relativi al ripopolamento della valle dell’Ebro.
Fernando proclamò l’idioma castigliano lingua ufficiale delle leggi e dei documenti pubblici al posto del latino.
Occupando lo spazio che nella tradizione popolare aveva occupato il latino, germinarono diversi idiomi dal tronco comune. Attecchirono solo il galiziano-portoghese, il castigliano ed il catalano a spese della fusione con i dialetti vicini e della progressiva scomparsa della lingua araba, mentre nelle valli basche e navarre si radicava sempre più il basco.
I Baschi erano una delle etnie più antiche, certamente preromane e neppure indoeuropee. Essi abitavano le solitudini dei Pirenei e li si conosceva col nome di Vascones.
Per la sua fonetica innovatrice e la sua capacità espressiva, il castigliano mise prontamente in disparte il leonese ed assoggettò il navarro-aragonese fino a farlo scomparire nel secolo XV.
Alfonso X scriveva in galiziano e in castigliano.
Si giunse a scambi di sapere tra pensatori cristiani, islamici ed ebrei, la cui maggiore testimonianza fu la Scuola dei Traduttori di Toledo che conobbe il suo massimo splendore grazie al mecenatismo di Alfonso X.
Le opere dei grandi pensatori musulmani, greci, indù e persiani furono tradotte in arabo ed in castigliano, accreditando così il castigliano negli ambienti intellettuali.
I cambiamenti sociali del XIII secolo, produssero delle crepe nel monopolio docente della Chiesa e le antiche scuole monacali e cattedralizie cedettero il passo agli Estudios Generales ed alle prime Universidades come Palencia e Salamanca.
Appare quindi storicamente chiaro che la fioritura giuridica e letteraria della corte di AlfonsoX fu frutto dell’impulso dato da Fernando III in tal senso.
Nacquero organismi specializzati: cancellieri, consigli e tribunali, si irrobustì la centralizzazione dello Stato, il potere della Corona e la vita municipale e vennero ridotte al minimo le tasse volte a supportare le imprese belliche di Fernando III.
Fernando ed il figlio Alfonso governarono tuttavia sulle terre di “ honor regia “ e sulle loro città senza immischiarsi nei fatti delle signorie private oppure in quei territori che, per la loro speciale conformazione, conservavano certe peculiarità come le Provincie Basche.
Il vernacolo, mezzo scelto da Fernando e dal figlio Alfonso X, mutava la propaganda già nazionalista delle cronache clericali in latino, in uno strumento di propaganda monarchica di tipo più secolare, giacchè dalla storia provvidenziale di un popolo eletto e di una terra della promessa, si passò alla storia trionfale di una dinastia imperiale e di una corona espansionista.
La lingua nativa non serviva solo a dare una nuova configurazione alle tradizioni nazionali delle canzoni di gesta(trovatori), ma si prestava anche alla secolarizzazione degli schemi etici ed ai commenti politici sullo sviluppo delle relazioni tra governanti e popolo.
Le strategie retoriche ed ideologiche dei cronisti ecclesiastici del XIII secolo trasformarono il concetto di Spagna in un discorso storicista che interpretava e rappresentava i modelli biblici, epici, clericali e monarchici di identità nazionale. Nella figura di Fernando III culminava tanto la dinastia castigliana che la riconquista della penisola, il cui centro di gravità era tra Toledo e Siviglia. La figura del re rappresentava un modello di governante di una nuova e grande nazione. Egli attuò un cambiamento nella stessa monarchia basandosi sulla consapevolezza di appartenere alla cristianità latina.
IL GUADALQUIVIR E LA MARINA DA GUERRA
“E’ indispensabile creare una marina da guerra imbattibile, unaflotta grande e potente, armandola nei porti del nord. A ciò dedicherò tutte le mie energie.
Don Ramón Bonifaz, sarete nominato comandante della flotta e primo a ricoprire la carica di Ammiraglio di Castiglia!”
Così si espresse Fernando con voce piena di enfasi, gli occhi luccicanti d’orgoglio e di speranza.
A Ramón il Guadalquivir appariva come in una visione ed era certo che Siviglia si sarebbe potuta facilmente conquistare dal fiume. Quel fiume, che egli conosceva bene, era come un essere vivente. Alimentato da molti torrenti e dotato da una gran forza gli avrebbe facilmente aperto le porte della città.
Ramon si inchinò alle parole del re ed affermò pomposamente:” Farò quanto è in mio potere per ottenere una grande vittoria!”
Con gli occhi della mente egli vedeva le navi passare sull’acqua come fantasmi mentre la città mostrava loro le terrazze, i campanili e le belle campagne circostanti. Fernando aveva quindi deciso di espugnare Siviglia via fiume, scaltra decisione!
Come gli era accaduto altre volte, Ramon vedeva il disco del sole ingrossato, rovente, accecante, sospeso nel cielo con i suoi dardi guizzanti nell’aria e sull’acqua dall’uno all’altro orizzonte.
Uomo d’azione, comandante audace e severo che studiava carte nautiche e preparava piani dettagliati, Bonifaz amava però anche la solitudine e la pace, amava guardarsi dentro e pensare.
Era un bel pomeriggio e, non appena uscito dalla camera del Consiglio, dimentico della gente alle sue spalle, salì su per un viottolo erboso, si fermò tra le rovine di una torre antica e sedette su una panchina di pietra. Dal piccolo colle si mise ad osservare i ciuffi verdi degli alberi che si agitavano nella brezza e la linea argentata del fiume che si calava nell’abbraccio dei tetti lontani e scorreva placido in basso e poi il sole calante e scosse lentamente la testa. Voleva riflettere! Lì c’erano i sogni e le memoria scolpiti nella pietra antica. Osservò il cielo che scoloriva, un cielo color primula che, come quel suo tempo, gli sfuggiva tra le dita.
Una chiesa sorgeva da una bassa gradinata ed i suoi portali con leoni, orsi ed angeli che sporgevano fuori dal cornicione davano l’impressione che abili artigiani di tempi lontani avessero avuto una propria storia da raccontare. La casa di Dio non gli era apparsa mai così bella come in quella luce crepuscolare che le conferiva un aspetto leggiadro e rappresentava il cuore della piazza su cui sorgeva e della borgata. Durante il giorno i venditori erano soliti disporre bancarelle su un lato della piazza formando un mercato vivace e vario, ma in quell’ora del giorno erano chiuse e coperte da teli conferendo al tutto un’aria di abbandono.
Un grosso gatto grigio si era alzato a stiracchiarsi per poi riprendere una nuova posizione, acciambellato a godersi il tepore dell’ultimo sole.
Ramon pensava: “Viviamo da un giorno all’altro, ciascuno simile a quello che lo segue e poi, improvvisamente, il nostro cuore si illumina e ci svela tutto ciò a cui aneliamo. Nessuno può comprendere la propria vita fino a che non l’ha vissuta tutta.
Io non ho fatto nulla di veramente grande per conquistarmi la stima del re e dei miei sottoposti, non l’ho meritata, ma la posseggo. A Dio non servono certo testimoni né a mio favore, né a mio carico, dato che Egli mi conosce nell’intimo.
Però è nelle piccole cose che si possono fare progressi, nell’umiltà che si impara a vivere e quelle più grandi, onori e vittorie, seguiranno e vedrò ripagati i miei sforzi.”
La stella della sera era bassa all’orizzonte ed un diafano sciame di stelle si preparava a circondarla. Un cane dal muso nero e dal pelame arruffato avanzò verso Ramón strisciando col ventre sulle pietre. L’ uomo gli tese una mano e l’animale, ormai rassicurato, si raddrizzò e pose il muso sulle sue ginocchia.
Campane cominciarono a rintoccare, prima le più lontane, poi quelle più vicine come se si parlassero nell’immensità del cielo mentre gli uccelli tornavano a frotte verso i loro rifugi notturni.
Anche i bambini, che a volte venivano a giocare in quel luogo e a rompere la quiete che vi regnava, se ne erano andati.
Le folate di vento erano diventate gradatamente più forti e Ramon si alzò per sgranchirsi le gambe lasciando vagare lo sguardo sull’acqua lontana, non ancora presaga di guerra, poi prese la via del ritorno.
Il Guadalquivir era ed è, con i suoi 680 chilometri, il secondo fiume della Spagna dopo l’Ebro. Nasce dalla Sierra de Cazoria ed è ricchissimo d’acqua. Dopo un breve corso montano sbocca in pianura e passa per Siviglia dove il suo letto è ad appena centro metri sul livello del mare.
Vicino Siviglia il suo regime è costante ma, lontano dalla città, diventa tumultuoso, scava nel suo percorso voragini profonde dette canones, talvolta però è soggetto a lunghi periodi di magra e quindi risente della marea.
Più a sud si divide in tre rami, poi si riunisce in un’unica corrente fino alla foce e sbocca nell’Oceano Atlantico.
Scrivo ciò solo per dare un’idea delle caratteristiche di questo corso d’acqua.
“Sì, la flotta sarà veramente grande e l’ammiraglio dovrà comandare più di mille uomini oltre a molti servi affrancati!”
Con queste parole Re Fernando si era congedato dai membri del Consiglio che avevano accolto favorevolmente il suo piano.
Come sempre la Santa Vergine avrebbe ascoltato le preghiere ed avuto pietà dei combattenti grazie alla grande fede, mai sopita, del Re Crociato.
Ci sarebbero voluti mesi per allestire la flotta e il solo pensiero di conquistare Siviglia gli faceva venire i brividi.
A Granada la dinastia musulmana dei Nasridi aveva riconosciuto, almeno formalmente, la sovranità castigliana, rimaneva quindi un ultimo, importante obiettivo, Siviglia.
Fernando preparò lungamente il piano d’attacco e, nell’estate del 1247, si preparò all’assedio ben sapendo che la vittoria non sarebbe dipesa da un assalto in piena regola, ma dall’isolare la città tagliando i suoi collegamenti fluviali. Le navi castigliane risalirono il Guadalquivir ed isolarono la città.
Senza speranza di avere soccorsi i Sivigliani dovettero accettare le condizioni di Fernando III.
I cristiani entrarono in città nel novembre 1248 ed il re nominò una giunta di partidores, con a capo il futuro vescovo della città, Raimundo Losaña, cui fu affidata l’enumerazione e la ripartizione dei beni acquisiti con la conquista. Piena alleanza quindi tra il clero ed il re, intesa mai incrinata per il prestigio di Corona e Chiesa.
Molti furono allora i mercanti che affluirono a Siviglia: ebrei e Genovesi (che ottennero un proprio quartiere), Catalani, Lombardi e Pisani. Tra questi alcuni grandi artisti: pittori, scultori, letterati di cui Fernando si valse negli anni seguenti.
Siviglia, con la sua valle fertile, il porto fluviale e luogo strategico in relazione al Mediterraneo ed all’Atlantico, diventò la città di re Fernando, la sua residenza, il centro del potere della corona.
La politica e le campagne di Fernando III furono volte ad ottenere tre risultati: La riunificazione di Castiglia e León nel 1230, la conquista di tutta l’Andalusia e la castiglianizzazione sistematica di Andalusia e Murcia con la ripopolazione dei territori e la vernacolizzazione delle istituzione, della corte e del governo.
Fernando III incarnò la nazione spagnola, diede un programma all’autorità reale, alla sua identità e missione politica ed interpretò l’ideale dinastico di un impero peninsulare ed anche transmediterraneo, in breve colonizzò il cuore degli Andalusi, trasformò i Castigliani da guerrieri di frontiera (come si evince dall’etimologia del loro nome) in nuovi Spagnoli, così definiti a causa delle sue ultime e decisive conquiste, guidati da una corte illuminata ed orientati verso un futuro imperiale. Un ottimo re quindi, diplomatico, temuto e rispettato anche dai suoi nemici.
Persino l’arabo Himyari gli riconobbe purezza di costumi, eroismo, generosità ed innato spirito di servizio nei confronti del suo popolo.
FERNANDO E I CAVALLI
Mentre accarezzava paternamente due dei figli maschi più grandi, Fernando pensava alla sua prima moglie, Beatrice di Svevia, da cui aveva avuto anche una figlia.
L’amata consorte defunta era una principessa tedesca “ buona, bella, giudiziosa e modesta, pulita, sapiente e pudica “ così l’avevano definita i sudditi.
La rivedeva incedere in un abito stretto da una cintura color argento, impreziosita da pietre azzurrine ed un mantello blu sulle spalle. Sul capo portava una cuffia che le nascondeva in parte i lunghi capelli acconciati in una spessa treccia.
Fernando l’aveva sposata giovanissimo su consiglio della madre Berenguela e l’aveva amata molto, con l’ardore proprio della giovinezza.
L’attuale moglie, Giovanna, bella ed intraprendente, colta e saggia, gli aveva regalato altri cinque figli. Anche lei era una grande appassionata di cavalli e cavalcava con disinvoltura.
Fernando aveva demandato alla consorte la scelta dei precettori dei propri figli, però doveva prima discuterne con lui.
Giovanna scelse gli insegnanti migliori di letteratura, arti e scienze e Fernando si riservò il diritto di portare due dei suoi figli maschi, Alfonso e Sancho, alle scuderie dove, accanto ai cavalli pesanti, erano ospitati anche piccoli ed agili destrieri arabi.
Le doppie porte della scuderia erano aperte e rivelavano due lunghe file di alloggi per gli animali. Alla parete di fondo erano appese selle, finimenti ed utensili vari. Uno stalliere, da molti anni alle dipendenze del re, era intento a strigliare uno stallone bianco.
Fernando alzò la mano in cenno di saluto ed entrò con i figli.
Spesso i cavalli erano lasciati liberi nei loro recinti e, in uno di questi, c’erano una giumenta ed il suo puledrino. Fernando la chiamò e lei alzò la testa e gli si avvicinò trotterellando.
“Venite, avvicinatevi, figlioli!” disse ai figli che erano rimasti stupiti del grande affetto con il quale il loro papà salutava la giumenta.
Alla vista dei due ragazzi la cavalla sembrò intimidita, ma poi cambiò idea e cominciò a gradire le loro carezze e le parole gentili che le sussurravano.
“Dovete sapere che questa giumenta è di stirpe nobile, la più nobile tra quelle della Terra Santa. E’ molto docile ed intelligente ed imparerete a volerle bene. Per diventare bravi cavalieri dovete familiarizzare col vostro cavallo a tal punto da ritenerlo il vostro migliore amico. I cavalli dovranno imparare ad eseguire gli ordini che darete loro, spronandoli ed orientando le redini ora in un modo, ora in un altro. Gli animali si devono abituare a voi e voi a loro così da essere un tutt’uno con voi sia nelle competizioni che nelle battaglie”. Additando poi gli agili destrieri, Fernando proseguì:” Questi cavalli sono agili, scattanti ed estremamente fedeli. Se li amerete anche loro vi ameranno e non vi abbandoneranno combattendo per voi e con voi fino alla morte, quindi seguite sempre i consigli che vi darò.
Quando ero ancora un ragazzo credevo d’essere un grande cavaliere e valoroso guerriero e mi allenavo fino allo sfinimento.
Avevo solo quattordici anni e mi ero convinto di essere tra i più abili a maneggiare la spada. Crescendo compresi però che un cavaliere non deve avere solo forza e destrezza, ma anche prudenza ed una buona dose d’astuzia”.
Il re narrò ai suoi ragazzi storie di marce forzate, cariche di cavalleria e violenti scontri tra eserciti in cui i cavalli combattevano come esseri umani e diventavano spietati, addestrati a mordere e scalciare, ad indietreggiare ed a muoversi al momento giusto per far sì che il loro peso, sommato a quello del cavaliere, accompagnasse con forza un colpo di spada o d’ascia sull’elmo del nemico. Aggiunse che in guerra ogni valoroso era chiamato al sacrificio ed a dare il meglio di sé.
Alfonso più che Sancho avrebbe imparato la strategia, un’arte che consiste nel saper schierare le truppe nel modo giusto e attaccare al momento giusto, poiché ciò decide spesso le sorti di una battaglia.
“ Il mio istruttore mi ha insegnato che la guerra si fa sia in attacco che in ritirata”, affermò Fernando guardando i figli con un misto d’orgoglio e tenerezza. Loro tacevano ascoltando con occhi sgranati ed egli fu sicuro che, in un futuro non lontano, avrebbero ricordato le sue parole, poi domandò :” Allora, volete provare a montare in sella e cavalcare?”
GIOVANNA E I MERCANTI
Siviglia era diventata l’approdo di molta gente venuta dal mondo allora noto. Gente di ogni colore, razza e religione vi sbarcava e spesso s’intratteneva in città, affascinata dalla sua bellezza, dal clima e dalle opportunità di lavoro e di commercio.
I mercanti si radunavano sotto i portici del gran cortile dell’Alcázar per mettere in mostra le loro mercanzie, molte delle quali veramente preziose a quel tempo.
La regina Giovanna de Dammartin, figlia di Simone de Dammartin, Conte d’Aumâle e di Maria, Contessa di Ponthieu, guardava le merci con occhi attenti.
Fernando l’aveva sposata nel novembre 1237 dietro consiglio della madre Berenguela, dato che, come già accennato, egli aveva perso l’amatissima consorte Elisabetta di Hohenstaufen (detta Beatrice di Svevia), figlia del Duca di Svevia e Re di Germania, Filippo.
Filippo era figlio del Barbarossa e di Irene d’Angelo, figlia dell’Imperatore di Costantinopoli, Isacco II° Angelo. La giovane Elisabetta, rimasta orfana, era stata educata alla sfarzosa corte del cugino, Federico II°, Re di Sicilia e poi aveva sposato Fernando.
Il sovrano non amava le contrattazioni e non aveva neppure il tempo di far compagnia a Giovanna, dedito com’era alle battaglie ed a stringere solide alleanze.
Aveva accettato l’invito del re moro di Granada che si era proclamato suo vassallo e voleva discutere con lui di certe questioni importanti in occasione di un banchetto.
Il territorio musulmano si era ridotto al solo regno nasride di Granada (1232-1292), quello che continuava ad essere semplicemente al-Andalus, nome che richiama i vandali (al-Andalish). E’ interessante notare che la parola compare nell’iscrizione bilingue di una moneta, un dinar del 716, dove la legenda latina reca Spania, mentre quella araba reca appunto al-Andalus.
Fernando annoverava tra gli altri suoi pregi anche la puntualità e manteneva sempre la parola data, fatto raro in quell’epoca di tradimenti ed intrighi di corte. Era leale soprattutto con i nemici, la sua era quindi una politica della lealtà.
“ Devo andare !” sussurrò alla moglie chinandosi a sfiorare con le labbra la fronte di lei.
I mercanti si erano trasferiti dalla cattedrale, non certo luogo adatto agli affari, al cortile dell’Alcázar, sotto il cui portico interno sedeva Giovanna che stava esaminando le merci che mani esperte le offrivano e, sebbene fosse abituata a quella particolare attività, si meravigliava sempre della gran dovizia di cose nuove che poteva abbracciare con lo sguardo. C’erano “ spezie “, condimenti per la stagionatura e conservazione delle vivande, ma anche droghe, profumi, unguenti, materie coloranti e molti generi di uso religioso come l’incenso e di lusso come i cosmetici.
La regina riusciva a spuntarla sempre ad acquistava grandi partite ad un prezzo di favore.
Per ingraziarsi il clero, regalava spesso al capitolo della cattedrale ed a varie chiese di Siviglia, Burgos e Toledo grandi quantità di incenso per le cerimonie liturgiche.
Mentre Fernando partiva a cavallo per Granada con altri cavalieri al seguito, i mercanti stavano mostrando a Giovanna ben undici diverse qualità di zucchero e vari tipi di cera e di gomma.
Lei voleva acquistare una bella partita di pepe, merce che, in certi paesi orientali, aveva addirittura valore di moneta.
Dall’Oriente giungevano due qualità di pepe: il capsium o rosso ed il nigrum che in realtà poteva essere nero o bianco.
Più avanti nel tempo si iniziò a smerciare il pepe migliore, quello proveniente dall’Arcipelago della Sonda, a volte contrastato dalla cannella coltivata a Ceylon.
Le merci acquistate da Giovanna sarebbero comparse sui mercati di altre nazioni d’Europa e vendute a cifre considerevolmente più alte di quelle che lei aveva pagato per acquistarle, ricavandone così lauti guadagni con cui aiutare Fernando a sostenere le ingenti spese per le sue campagne militari.
Le reti commerciali stavano acquistando allora uno straordinario impulso. L’unico punto debole degli islamici era, a quei tempi, la navigazione, perciò essi lasciarono via libera ai marinai italiani e catalani che trasferivano la merce nei porti più importanti del Mediterraneo.
Anche quel giorno la regina Giovanna aveva speso tanti real e ne avrebbe guadagnati moltissimi.
Si accomiatò dai mercanti verso il crepuscolo ed il suo pensiero corse al marito. Quando egli partiva lei rimaneva in ansia fino al suo ritorno e quindi pregò Dio di rivederlo sano e salvo, poiché i pericoli insiti nei viaggi erano tanti: dalle imboscate dei briganti e dei musulmani agli attacchi delle bestie selvatiche. Tutto poteva rivelarsi un’insidia, ma si rincuorò pensando che il re ed i suoi cavalieri erano invincibili.
Intanto Fernando pensava a Giovanna che gli aveva dato ancora un figlio maschio due anni prima e che era ora nei primi mesi di una nuova gravidanza. Invece di riposare, come avrebbe dovuto, lei non si risparmiava mai alcuna fatica e si sentiva appagata solo svolgendo le attività che le piacevano e quelle attinenti al suo ruolo di madre.
Fernando aveva accolto tutti i suoi figli come dono di Dio ed aveva già destinato Alfonso ad erede della corona di Castiglia e Léon e delle città e terre da lui conquistate con ardimento e lealtà verso le truppe e verso il suo popolo.
Era certo che il figlio Alfonso avrebbe continuato la sua politica e dato nuovo lustro alla Spagna.
Per arrivare a destinazione avevano dovuto attraversare una pianura ventosa, piena di silenzio e circondata da brulle alture.
Gli arbusti crescevano lungo il margine dei pochi viottoli dissestati e pieni di sassi. Nel cielo si vedevano rondini e rondoni volare in cerchio e poi scendere giù velocemente.
Fernando si rendeva ben conto che questo mondo, fatto di città, di campi, di monti, di pietre, non è una cosa, ma semplicemente una storia. Tutto ciò che esso contiene è la somma di tutte le singole storie. Non vediamo i fili dei collegamenti, essi ci sono ignoti, ma fanno anch’essi parte della storia che non ha dimora, né luogo d’essere se non nel racconto che le generazioni passate hanno fatto e le future faranno e non si finirà mai di raccontare.
Dalle mani di Dio il mondo è sorto dal nulla e nelle Sue mani può svanire. Ecco un Dio che tutto può, un Dio senza fine, dotato di una immensa capacità di piegare tutte le cose indirizzandole verso una trama imperscrutabile, una creazione splendida nel divenire.
Rimuginando questi pensieri giunse dal re moro mentre erano in atto i festeggiamenti della “ Notte del Destino”, ossia del “ Laylat al-Quadr” che rievoca la prima visione di Maometto.
La sala degli ospiti aveva il pavimento coperto di tappeti e le pareti rivestite di splendidi arazzi con motivi floreali e riproduzioni di animali esotici e fantasiosi. Addossate alle pareti erano disposte panche di legno con sopra cuscini coloratissimi. Era una notte serena con un cielo di stelle ed una sottile falce di luna.
Entrato nella sala Fernando si sentì subito a suo agio mentre gli invitati si sedevano uno dopo l’altro e cominciavano a conversare in arabo, castigliano e latino. Fuori si sentiva odore di pesce arrostito, di carne di pecora e d’oca.
Durante il banchetto il re moro avrebbe parlato con Fernando di sottomissione e politica militare.
Prima però, recitata una breve preghiera con un suono gutturale molto marcato, venne sollevata una brocca contenente acqua con cui furono riempiti i bicchieri mentre un gruppetto di musici suonava strani strumenti cui si unì un coro sommesso di voci.
Il re di Granada e Fernando spezzarono un poco di pane piatto e morbido che intinsero nel sugo della pecora pieno di spezie. Cominciarono a conversare pacatamente mentre mangiavano con gusto e dalla loro espressione era facile comprendere che erano state gettate le basi di un’intesa duratura.
Fernando non mangiò poi molto a causa del suo stomaco delicato, molti invece, placati abbondantemente i morsi della fame, si erano adagiati sui cuscini ed ascoltavano ad occhi chiusi la musica strana e melanconica che usciva dagli strumenti.
Il re moro aveva attaccato con gusto le leccornie fatte con miele e nocciole che gli erano state servite in larghe ciotole di rame.
Quell’atmosfera ovattata favoriva la quiete ed il rilassamento e le note fluttuavano leggere nell’aria come poesie d’antica bellezza.
Sembrò a Fernando che il tempo si fosse fermato, non come a Siviglia in cui le ore erano scandite da programmi ed impegni improrogabili: quelli del mattino, del tardo pomeriggio e della sera!
Quello in cui Fernando stava vivevo era un mondo diverso, senza obblighi, dove non bisognava dirimere liti, concedere udienze, accogliere ambasciate, impartire ordini e fare piani di battaglia.
Pensò ai figli ed alla moglie, Giovanna dagli occhi scuri e le labbra atteggiate ad un dolce sorriso. Lei portava sempre la cuffia in testa per nascondere i bei capelli raccolti in un severo chignon.
Donna laboriosa e fedele, riponeva in lui una fiducia illimitata. Se ne stava spesso con le mani sul grembo quasi a protezione della nuova vita che sarebbe presto sbocciata, un’altra presenza alla corte di questo mondo.
Fernando e gli altri cavalieri passarono la notte nel castello del re moro. Prima di addormentarsi il Re Crociato pensò alle guerre che ancora lo attendevano, al suo popolo, alla povertà della gente che aveva incontrato, malridotta e bisognosa di aiuto concreto. Come alleviare le loro sofferenze?
Il mattino seguente volle alzarsi molto presto come era solito fare da parecchi anni e, prima di partire, si occupò personalmente del suo bel cavallo. La salute dell’animale stava molto a cuore a Fernando. Si accertò che avesse gli zoccoli puliti alla perfezione, gli restò vicino per un po’ sussurrandogli parole all’orecchio e accarezzandolo dolcemente. Aveva appreso questa tecnica da un suo amico crociato che lo aveva istruito facendo di lui un abile cavaliere. Poi radunò intorno a sé la scorta per una preghiera di ringraziamento e supplica alla Vergine Maria affinchè li proteggesse e li facesse giungere sani e salvi a Siviglia.
Fernando non aveva mai temuto la morte essendo abituato a vedere amici e nemici morti sul campo di battaglia. Aveva ucciso degli uomini, ma doveva pur difendersi e mostrare ai suoi soldati d’essere coraggioso! In testa ai suoi combattenti egli si sentiva più forte e pieno di vita come in gioventù.
La stanchezza lo abbandonava, il cuore gli batteva ardimentoso nel petto, si sentiva pieno d’orgoglio e sicuro della vittoria. Andava quindi all’attacco con un unico scopo: liberare dai mori quella terra amata, fertile e a tratti selvaggia e ripeteva spesso tra sé “La fe es toda”.
COLLOQUIO CON GIOVANNA
Fernando scese una scalinata e ne salì un’altra fino ad un portale oltre il quale si vedevano un muro bianco, due alti alberi ed un sedile di pietra.
Oltrepassato l’arco sbucò in un bel giardino con al centro una vasca di marmo piena d’acqua fresca e trasparente come il cristallo, appena increspata dallo zampillo della fontana.
Il prato era verde, ben curato, circondato da aranci e chiuso da un muro coperto da rampicanti. A Giovanna piaceva starsene seduta là in disparte, lontana dal mondo esterno.
Tutte le volte che il marito desiderava incontrarla e parlarle, la trovava seduta con un marmocchio in grembo in compagnia della balia e di una damigella.
Il cielo imbruniva e spirava l’aria tiepida del tardo pomeriggio, fringuelli e tordi si disponevano al sonno pensando fosse già notte, gli altri uccelli ammutolivano al passaggio dei cavalieri ed al rumore degli zoccoli dei cavalli.
Giovanna amava i fiori e parlava con loro mandando messaggi alle persone lontane.
La damigella, che portava in un cesto un gran mazzo di fiori variopinti, si inchinò davanti a Fernando e la nutrice, preso in braccio il principino, si accomiatò con un sorriso umile. Solo allora Fernando, che non era solo un guerriero, ma anche un marito compito e dai modi delicati, abbracciò Giovanna, si informò sulla sua salute e sulla presunta data del parto, narrandole poi in breve i suoi progetti per il futuro della famiglia e del regno.
Marito e moglie si presero per mano e salirono insieme fino ad una grande stanza con una finestra rivolta a sud, era la loro stanza preferita, quella delle confidenze. In un angolo troneggiava un vaso gigantesco in cui facevano bella mostra fiori di ogni tipo.
Giovanna accostava i petali blu ai viola, ai bianchi, ai rosa, agli arancio. Quel bouquet era tutto un tripudio di colori, una quantità esagerata di fiori!
Fernando si rese conto che ciò che entrambi desideravano era quello di rimanere soli insieme. La consapevolezza del medesimo desiderio in Giovanna e la scoperta dello stesso nel suo cuore, gli diedero la certezza della loro profonda intesa. Dentro le pareti di quella stanza era rinchiuso tutto un mondo di sentimenti. Il cuore del re era pieno di tenerezza e di poesia, in quello di Giovanna albergava un influsso arcano, una emozione interiore che la spingeva a ricercare l’intimità.
La conversazione tra loro fu calma, piena di affetto. Fernando trovava in Giovanna una interlocutrice rassicurante che lo liberava da tensioni e timori. Egli dava sfogo ai suoi sentimenti nei momenti di smarrimento e di dubbio rifugiandosi nella sicurezza sorridente della moglie che gli infondeva fiducia col suono della sua voce ed il tocco leggero della sua mano. Ciò che li soddisfaceva e talvolta li divertiva era più per contrasto che per affinità, comunque avrebbero trascorso un’ora intima e piacevole.
Se anni prima se ne sarebbe vergognato reputandolo un segno di debolezza, ora Fernando confidò a Giovanna che da tempo non dormiva bene e che, quando riposava da solo, gli capitava spesso di stare a letto sveglio per ore dopo aver pregato la Santa Vergine o aver letto dei trattati sulla guerra al lume di candela.
Aveva in mente un progetto grandioso: un codice di leggi che voleva far compilare dai giuristi di corte e che avrebbe dato lustro alla Corona.
“ Cerco invano di allontanare pensieri e preoccupazioni circa il presente ed il futuro del mio amato paese, un paese liberato dai musulmani, ampliato ed unito. Le responsabilità sono davvero troppe ed ho sempre un gran timore di prendere decisioni errate!”
A questo punto Giovanna lo interruppe guardandolo negli occhi e disse:” Ma c’è sempre la tua saggia mamma che può consigliarti! Se lo ha fatto fino ad ora, confida in lei anche per il futuro!”
Lui proseguì con voce stanca:” Questa mattina, mio fratello,
Alfonso de Molina, ed io siamo andati a cavallo verso il poggetto che tu ben conosci. Quando siamo arrivati in cima abbiamo dato un’occhiata a campi e boschetti mentre spuntava il sole e l’aria era limpida e serena. Tutto era silenzioso e, ad un primo sguardo, la campagna sembrava tranquilla e pacifica, geometricamente tappezzata da orti e giardini e disseminata di casupole di contadini.
“Guarda le nuvole, il sole le sta riempiendo di arcobaleni, quanta pace! Sfortunatamente non ho la stessa pace nel cuore, fratello mio!” Così ho detto ad Alfonso e lui mi ha sorriso. Comprende sempre ciò che voglio significare, è un vero, grande e fedele amico!”
Giovanna, in tono comprensivo e con fare sottomesso, affermò: “Ti vuol bene e ti sarà sempre accanto. Confidarti spesso con lui, certo non ti deluderà mostrandosi indifferente!”
Gli ho detto, riprese Fernando:” Penso che nei paesi evoluti chi possiede maggiori ricchezze, oro ed argento è sempre il più forte. Un esercito come il nostro, non vive né d’aria, né di sola fede, anche se essa è molto necessaria, ma di provviste e di armi !” “Questo la sai anche tu, moglie mia! La guerra è anche questione d’affari e di alleanze con potenze straniere e con la ricchissima Chiesa! Per ogni uomo armato di spada e vestito d’armatura, ce ne sono altri che coltivano i campi, pescano nel fiume ed in mare, fanno navigare chiatte e navi, guidano i carri e si occupano dei cavalli, lavorano nelle fucine per costruire le armi. Dietro a tutto questo c’è il denaro!”
“Lo dico a te e l’ho detto anche a mio fratello Alfonso de Molina.
Tra lui e me c’è qualcosa di più profondo del legame di sangue. C’è quello forgiato dalla fratellanza in battaglia e temprato dalla lealtà vicendevole e lui mi ha risposto:” E’ proprio così!”
Cavalcandogli accanto ho poi proseguito:” Non manca giorno che io non preghi la Santa Vergine e lo farò anche durante le campagne militari, le battaglie prolungate, gli assedi affinchè questa cara Madre di tutti posi la sua mano protettrice su di noi, sulle nostre famiglie, sulla corte, sui nostri soldati, sulla popolazione. Fratello mio, abbiamo cavalcato e cavalcheremo ancora insieme in compagnia della grande Mietitrice con la falce.
Quando preghiamo al mattino con i nostri compagni d’arme, non sappiamo certo quanti ne mancheranno al tramonto, ma non per questo dobbiamo risparmiarci! Abbiamo visto spirare molti, spesso migliori di noi. Il dolore lasciamolo alle ore di intensa preghiera prima di addormentarci sui nostri giacigli alla vigilia di una nuova battaglia. Non prendiamo mai alla leggera le nostre responsabilità!”
“Così gli ho parlato Giovanna e ti assicuro che mi sono sentito l’animo più leggero”.
“Mi sembri eccessivamente preoccupato, marito mio!”, proseguì lei,” Ti consiglio di riposare un poco ed avere più cura di te stesso. Ti spendi molto, anche troppo per gli altri e per tutti noi. Cerca di non ammalarti, altrimenti come farai ad affrontare il fardello che nasconde il domani?”
Fernando mentiva a se stesso; sapeva bene d’essere malato, ma non sapeva quanto fosse grave la malattia che lo tormentava. Era vero che dormiva poco e male e che ogni piccolo rumore, ogni scricchiolio, ogni sussurro ed ogni respiro nella notte lo infastidivano. Si alzava comunque con gran fatica al mattino prestissimo, sfinito dalla veglia notturna. Ci voleva del tempo prima che iniziasse a muoversi con scioltezza pungolato dalla sua volontà di ferro! Quando viveva nell’accampamento egli si sottoponeva a moltissime privazioni, imponeva la disciplina prima a se stesso e poi agli altri, era magnanimo e paterno verso i soldati ed ascoltava le loro lamentele.
Come ottimo sovrano e paladino della fede amava molto la giustizia e voleva che tutti si conformassero ad essa.
FERNANDO III MECENATE DI ARTISTI
A Siviglia vivevano svariate comunità straniere e la città cresceva nella sua fisionomia di eleganza e di cultura del teatro, della musica e della poesia.
L’arte di autorevoli maestri della scienza metallurgica, che modellavano i metalli partoriti dalla terra, si era radicata negli stretti vicoli della città.
Gli artigiani del XII e XIII secolo custodivano i segreti delle leghe nobili e quelli delle pietre luminose quali simboli regali e li trasformavano in monili cesellati, in gioielli con pietre preziose incastonate in collane, fibbie, corone e reliquiari di eccellente fattura.
Fernando aveva potuto ammirare moltissimi capolavori d’oro e argento e ne era entusiasta.
Le antiche corporazioni ed associazioni delle arti e mestieri erano depositarie di una sapienza profonda tramandata per via orale. Maestri orafi e argentieri, fabbri, spadai e muratori conoscevano la natura particolare della materia e i suoi influssi benefici sull’uomo.
Il re ne era stato edotto da un suo grande amico, non solo musico eccellente, ma anche profondo conoscitore di gemme e valente scultore.
“Credi che potrei trovare orafi e argentieri capaci?” chiese Fernando al figlio Alfonso mentre cavalcavano fianco a fianco addentrandosi nella campagna.
“Certamente, padre! Se farai correre voce che li cerchi, se ne presenteranno non dieci, ma cento ed entreranno in competizione facendo a gara per offrirti il meglio della loro produzione al prezzo più vantaggioso. Siviglia è piena di artisti giovani e promettenti!
Io ne conosco due che sono arrivati da poco e sarebbero fieri di lavorare per te, si chiamano Jesus e Job e sono valenti artisti”. Alfonso parlava con voce calda e sicura. Era un giovane snello e forte, dotato di naturale astuzia e coraggio ed il padre gli andava insegnando gradatamente tutto quello che un futuro sovrano deve sapere ed egli imparava molto in fretta.
Alfonso montava una bella cavalla di nome Nane che aveva narici larghe e la testa affilata dei cavalli arabi, zoccoli grandi e spatolati adatti anche alla terra sabbiosa ed il manto castano chiaro. Aveva cuore indomito e garretti per portare il padrone al galoppo per ore fino a destinazione.
Riallacciandosi al discorso sui maestri orafi ed argentieri, nonché scultori, Fernando continuò:” Desidero costruire splendide chiese, ancor più belle ed imponenti di quella dedicata a Sant’Isidoro a León. Ne intitolerei una al Santo Sepolcro, ma forse sarebbe più opportuno dedicarla alla Madonna dei Re per dimostrare che Dio e Maria sono con gli uomini di Castiglia e non v’è bisogno di cercarli in paesi lontani. Il mio compito più impegnativo però, è quello di costruire la pace armando un esercito tale da rendere quasi impossibile dargli battaglia e sgominarlo”.
Così affermò Fernando e, come sempre, realizzò ciò che si era prefisso da tempo: fece edificare le nuove cattedrali di Burgos e Toledo ed abbellire quella di Siviglia.
Oggi, come allora, la cattedrale è la chiesa in cui si trova la “cattedra episcopale” e si adunano il vescovo, il capitolo, chierici e religiosi( a quel tempo, anche membri di alcuni ordini cavallereschi di origine monastica).
Fernando elargì cospicue donazioni per far costruire anche abbazie, mostrandosi così Re Cattolico e Difensore della Fede, come amava definirsi.
Particolarmente ricco, a quel tempo, era il romanico spagnolo che entrò in attività con i Cluniacensi nella regione pirenaica catalana, nella Navarra e nella Castiglía e León.
In alcuni casi sono ancora visibili nelle loro opere influenze arabizzanti ma anche provenzali e lombarde. Da queste derivano i monumenti di Castiglia cui si accompagnano capolavori di scultura(portici e chiostri), in particolare nella grande cattedrale di Santiago de Compostela. La devastazione della sede delle reliquie di San Giacomo, luogo di culto venerato dalla cristianità di allora, era stata attuata da Al-Mansur, chiamato anche “Almezor”. Questi, entrato nella città, giunse a distruggere la maggior parte dei muri della chiesa senza però toccare il suo altare e le reliquie, forse colto da terrore reverenziale o intimorito dal pensiero che il Santo si sarebbe potuto vendicare della profanazione.
La chiesa fu trasformata dai musulmani in una grande moschea, ma fu poi ricostruita cattedrale ed ultimata nel 1122. Fernando fece riportare nella città galiziana le campane che Al- Mansur aveva rubato nel 997.
Molti maestri scalpellini iniziarono a lavorare per Il Re Crociato e le sue chiese. Essi avevano alle loro dipendenze apprendisti volonterosi e provetti che davano loro una mano nel lavoro e venivano dislocati nei cantieri di qualche chiesa in costruzione per seguire di persona il procedere dei lavori.
Gli artisti avevano presto scoperto che a Siviglia gli affari erano molto fiorenti, ancor più che in Francia ed Inghilterra.
In quel periodo si iniziò la costruzione di un centinaio di chiese.
Da anni gli scultori rappresentavano la Vergine Maria in tutti gli aspetti possibili: dolce, materna, severa, pensosa, sofferente, con l’angelo dell’Annunciazione, sull’asinello verso Betlemme, al cospetto della stella, con in braccio Gesù Bambino o accanto al figlio morto.
Le statue commissionate dovevano essere bellissime, non solo per fare onore alla Madonna, ma per soddisfare Chiesa, Re e popolo.
Quegli artisti credevano fermamente che la loro arte sarebbe vissuta nei secoli a venire.
UN SOGNO
Gli arcieri andavano nelle retrovie e preparavano gli archi, saggiavano attentamente la vibrazione delle corde tese con gran forza e le lasciavano andare all’improvviso. Era tutto un calzare elmi, stringere cinghie, affilare spade e, a pochi minuti dalla battaglia, nessuno parlava.
Fernando sentiva giungere da lontano dei rumori e le grida di molti uomini insieme ad un continuo e ritmico tum-tum dell’ariete che tentava di sfondare la porta della città.
Le trombe squillavano, lo stendardo ondeggiava al vento e, in quel preciso istante, il re si svegliò tutto agitato e sudato. Era stato solo un sogno!
“Ordinerò una zuppa fredda, Gazpacho, l’unico cibo che riesce gradito al mio povero stomaco. Aroma di limone, di pomodoro, di cipolla, di peperoni e coriandolo! E’ buona nel naso prima ancora che in bocca!” Così pensava Fernando e ne pregustava già il sapore. Era spesso andato col pensiero alla sua infanzia, chissà perchè! Rivedeva le abili tessitrici di corte che creavano stoffe meravigliose e le mani delle ricamatrici che creavano motivi geometrici e fiori variopinti. Uomini industriosi costruivano attrezzi per il lavoro dei campi e cantando le donne accudivano animali da cortile e gli stallieri i cavalli.
In un’ala del castello le anziane intrecciavano ceste e, a testa china, immergevano le canne da intrecciare in una tintura rossa, viola o gialla, ottenuta sapientemente da piante e fiori particolari.
Ricordi lontani ma vividi come le mani di quelle vecchie con sopra le macchie color dell’arcobaleno.
“Sto diventando nostalgico! E’ colpa degli anni che passano o della stanchezza?, si chiese Fernando.
“Questo non è né tempo, né luogo di indugiare in sentimentalismi. Ho solo bisogno di cavalcare e rilassarmi per schiarirmi le idee. E’ un’ involontaria e momentanea debolezza, la mia!” Allora ordinò che gli sellassero il cavallo.
Mulinelli di polvere si alzavano mentre il re galoppava pensando a come sviluppare nuove attrezzature ed armi in grado di neutralizzare il nemico musulmano.
Forse una testa di martello da un lato ed una picca corta ed appuntita dall’altro in grado di perforare qualsiasi elmo?
Una balestra leggera che i cavalieri potevano utilizzare con una mano sola dato che con l’altra dovevano reggere le redini e lo scudo?
Egli tornò a considerare un altro aspetto del potere, quello che non ha nulla a che vedere con la forza delle armi, quello che scaturisce dai commerci e dal flusso delle ricchezze e che è più forte di quello della spada.
Ben lo sapeva Giovanna: oro, argento, spezie, pietre preziose, scambi tra diversi paesi che diventavano moneta sonante con cui si poteva acquistare di tutto, ma non la vera fede, quella che animava le decisioni del re e gli dava il coraggio di agire con rettitudine.
Il re pensava:“Tutto si potrà dire di me dopo la mia morte, ma non che io mi sia comportato da arrogante o impietoso. Sono stato caritatevole verso i poveri, non ho infierito sui nemici e sui vinti, perchè tutti riconoscessero in me la presenza del Dio di Giustizia e la Sua Misericordia e si convertissero, certo! Spero che Gesù e Maria mi perdonino tutti i peccati commessi ed abbiano pietà di me!”
Quel giorno aveva in serbo una bella sorpresa per Giovanna e già ne gioiva intimamente. Un re amico gli aveva inviato in dono un bellissimo animale addomesticato, accompagnato da un uomo di colore, esperto di bestie africane che se ne era preso cura e l’aveva scortato fino a Siviglia chiuso in un cassone di legno.
Fernando aveva fatto allestire, in un angolo dell’immenso giardino, una enorme gabbia dove la bestia si trovava sì prigioniera, lontana dalle pianure e dune sabbiose della terra africana, ma veniva amorevolmente nutrita e rifornita d’acqua.
Era un grande maschio di antilope, massiccio di collo e di spalle, alto al garrese come un cavallo ed aveva uno splendido paio di corna lunghe, dritte e molto acuminate che avrebbero potuto facilmente infilzare un leone. Il suo muso era striato di righe scure e mostrava una dignità quasi selvaggia.
All’avvicinarsi di Fernando e Giovanna l’antilope girò la testa verso di loro ed alzò le orecchie scampanate annusando l’aria ed agitando inquieta la coda simile a quella di un cavallo.
Giovanna lo guardò incredula poi esplose in un grido di gioia dicendo:“Oh che grande e splendido toro!” Fernando però le fece osservare:” Non è un toro, mia cara, ma un poderoso maschio d’antilope, recatomi in dono dalle profondità remote dell’Africa. In un primo momento sono stato lieto di riceverlo, ma ora temo di non esserlo più!”
L’uomo che si occupava della bestia le aveva gettato dei tuberi che lei ora stava mangiando con gusto tenendoli schiacciati a terra col suo duro zoccolo, aveva però gli occhi tristi sotto le lunghissime e folte ciglia.
Giovanna provò subito una fitta di commiserazione per la povera bestia e si affrettò a dire al marito:” Rimanda questa antilope alla sua terra! Trova una scusa qualsiasi o morirà di nostalgia per i suoi pascoli e per le altre graziose antilopi e i loro piccoli, sì proprio come noi umani quando veniamo allontanati da casa!”
Fernando trovò saggio il consiglio della moglie e le rispose: “Anche gli animali sono creature di Dio, hanno sentimenti e soffrono quando sono imprigionati. La rimanderò al re insieme ad una buona quantità di monete in omaggio. Non voglio che si offenda per il mio gesto, ma Omar, che è intelligente, non si offenderà!”
Non è difficile immaginare lo stupore suscitato da quello splendido animale. I figli di Fernando e la corte furono invitati ad ammirarlo e ci fu un gran andirivieni intorno al gabbione che l’ospitava.
Dopo qualche giorno di permanenza in quella prigionia dorata,
l’antilope venne portata via con gran disappunto di tutti, specialmente dei figli più piccoli del re che la consideravano come adottata e la salutavano con piccoli cenni della mano.
UNA FESTA A CORTE
Fernando si era fatto ritrarre in piedi in una sala dell’Alcázar. Per l’occasione aveva indossato un’armatura di fattura straniera ed aveva ai piedi dei calzari con due lucenti speroni d’oro ai calcagni.
Uno splendido mantello gli fasciava le spalle scendendo fino alle ginocchia e portava al fianco la spada vittoriosa dentro un fodero con lo stemma della corona di Castiglia e León.
Infilato alla spalla destra s’intravvedeva un elmo lucente e la sua figura era davvero splendida e regale.
Non so chi fosse l’autore del ritratto, ma certamente un valente artista, uno dei grandi che lavoravano a corte e per le chiese della zona.
Quel giorno di gran festa le donne nobili si erano abbigliate con ricchezza ed avevano esaltato la loro bellezza e grazia con belletti per il viso e tinture per capelli. Le nubili portavano chiome sciolte e lunghe, le sposate avevano il capo coperto da una cuffia impreziosita con perle e trecce annodate dietro la nuca.
La biancheria intima della sovrana e delle dame di corte era trattata con profumi ed alcune di loro indossavano cinture preziose per mettere in risalto la vita sottile.
Le popolane e le donne più modeste però indossavano, sia in casa che fuori, ampi mantelli che nascondevano le forme del corpo.
Alla corte di Fernando III, come in altre corti d’Europa, i nobili tenevano al loro seguito giullari e menestrelli che li allietavano con poesie e canzoni.
Re Fernando, che non era solo un guerriero, ma anche un mecenate e letterato che si dedicava allo studio dei classici, accoglieva trovatori, poeti e scrittori che intessevano le lodi delle gesta cavalleresche e delle sue battaglie per la Riconquista della Penisola Iberica.
Quel giorno centinaia di ospiti e molti cittadini erano accorsi alla festa che celebrava le vittorie del re. Erano giunti giullari a narrare storie ed esibirsi in giochi di prestigio. C’era anche un noto cantastorie cieco accolto a corte che aveva sempre qualcosa di nuovo ed eccitante da raccontare e che tutti ascoltavano con attenzione nonostante l’inevitabile chiasso in eventi del genere.
Popolani erano giunti su carretti addobbati con nastri di velluto dai colori vivaci ed erano state disposte lunghe file di tavoli e sedili per permettere alla gente d’assistere allo spettacolo dei giocolieri e di mangiare mentre pifferi e tamburi avrebbero suonato senza posa.
Ballerine e ballerini si esibivano in danze fantasiose ed alcuni ginnasti eseguivano gli esercizi più strani: si chinavano con la testa tra le gambe e zampettavano su un tavolo come enormi ragni suscitando le risate degli uomini ed orrore nelle donne.
C’era gran dovizia di cibo e bevande, ma Fernando, seduto al tavolo d’onore sopraelevato insieme a moglie, figli, dignitari e qualche ecclesiastico, mangiò molto poco. Non lo si vide mai brillo, né mai lo si udì ridere sguaiatamente oppure urlare. Teneva sempre un comportamento dignitoso e consono al suo rango anche quando era irritato o contrariato.
Giovanna notò lo sguardo di Fernando e capì subito che il pensiero del marito volava verso accampamenti e battaglie. La mano del re, poggiata sulla tavola, era la stessa di un tempo, sempre forte nel maneggiare la spada, delicata nelle carezze, ma ora con le nocche assai deformate e qualche cicatrice, chiaro segno di privazioni. Lei, che gli sedeva accanto, gli sussurrò:” Mi ricordo di com’eri il giorno del nostro matrimonio, avevi lo sguardo fiero e lieto, sono sempre stata orgogliosa di te”.
A quelle parole la mente del sovrano si risvegliò dal sogno di future vittorie da aggiungere a quelle che si celebravano quel giorno. Tornato alla realtà le rispose:” Anch’io ricordo il tuo viso gioioso ed i tuoi occhi limpidi e vivaci, specchio della tua anima bella!”
FERNANDO III E LA CHIESA
Fernando pensava al potere della Chiesa di Roma, ai grandi tesori che possedeva e che custodiva gelosamente, al Papa, ai vescovi, arcivescovi e capitoli delle varie chiese. Non avrebbe mai dovuto contrariarli, né contrastarli, ma farseli amici ed alleati. Cercò quindi di mantenere buone relazioni con la Santa Sede.
Egli amava la guerra come crociata cristiana e legittima riconquista nazionale e voleva mantenere la sua ferma risoluzione di non incrociare le armi contro altri principi cristiani.
“ Eserciterò pazienza, negozierò e farò utili compromessi”, giurò a se stesso e concretizzò questo suo programma senza troppo sforzo.
Così ebbe la facoltà di spendere per la riconquista il ricavato della “vigesima” raccolto dai collettori pontifici in Spagna per sostenere la crociata orientale e, al medesimo scopo, gli venne concesso il tributo delle “terze reali”, cioè della terza parte dei beni ecclesiastici dedicata all’edificazione delle chiese, quindi ebbe sempre un valido supporto economico negli ecclesiastici.
A ciò si aggiunse la frequente concessione di indulgenze mediante l’equiparazione dei crociati spagnoli a quelli orientali, cosa che gli permise di ingrandire il Regno di Castiglia ormai egemone sugli altri stati della penisola e di strutturare un governo modello dai sani principi cristiani, sagace ed abile nelle trattative.
Fernando, conoscendo bene la potenza di vescovi e prelati, alcuni dei quali erano però ignoranti, arroganti e prepotenti, legati alle loro ricchezze terrene più che ai voti di povertà, castità ed obbedienza, se li ingraziò assicurandosi i loro servigi, cosa molto difficile, ma che si rivelò possibile.
Egli protesse anche gli ordini mendicanti che si spendevano nell’attività missionaria.
E’ noto che fu Pietro il Venerabile, abate di Cluny, ad inviare in Spagna il primo folto gruppo di traduttori perchè riteneva più utile combattere i musulmani sul terreno intellettuale prima che su quello militare. Per tale motivo l’abate commissionò la famosa traduzione del Corano. L’interesse che spingeva verso la conoscenza di quel testo sacro, come pure di altri testi della letteratura araba, era però quello di trovare argomenti contro i musulmani e la Penisola Iberica rappresentava uno dei territori ideali in cui operare.
Fernando III appoggiò pienamente questo orientamento, incoraggiò l’attività dei Francescani, dei Domenicani e dei Trinitari, ordini allora nascenti. Non ponendo differenza tra lo stato legale degli ebrei e quello dei mori, decretò che entrambi dovevano assistere alle prediche dei frati.
Egli fu intransigente verso gli eretici e duro contro gli apostati ed i falsi convertiti, ma sempre tollerante nei confronti dei Giudei, dispose inoltre delle proprietà cittadine dei musulmani e dei latifondi dei magnati islamici, nonché dei beni delle istituzioni politiche e religiose.
Mediante un’opportuna divisione egli compensò con queste ricchezze gli uomini liberi che avevano partecipato alla Riconquista, assegnandone una parte alla monarchia e cedendo un ricco patrimonio alla sede ecclesiastica di Siviglia come compensazione di un terzo delle decime prestato per finanziare le campagne militari.
Tali divisioni perseguivano quindi un equilibrio tra le istituzioni, la chiesa, la nobiltà ed i piccoli proprietari terrieri.
La Chiesa dominava l’orizzonte della società spagnola d’allora, era ormai padrona di enormi possedimenti e detentrice dell’ordine sociale ed era quindi logico che Fernando III vedesse in lei una possibile antagonista e cercasse di ridurne l’influenza con mezzi che andavano dal taglio delle sue entrate economiche fino alla censura delle Bolle Papali considerate contrarie agli interessi dello stato ed all’esercizio del diritto di patronato nella nomina di vescovi e dignitari.
Fernando sapeva che le condizioni igieniche e sanitarie nelle città spagnole lasciavano molto a desiderare. Chi era privo di mezzi trovava aiuto solo nelle opere di carità a cui si dedicavano due ordini religiosi in particolare: Domenicani e Francescani che accoglievano nei loro conventi anziani e malati. Ad essi si affiancavano alcune confraternite, cioè libere associazioni di laici che pregavano in comunità ed assistevano quanti avevano bisogno di cibo e di cure.
Pertanto il re fece loro ricche donazioni al fine di costruire ospedali e chiese un po’ ovunque.
Le abbazie divennero così l’unico rifugio per i derelitti durante le guerre e l’unico luogo di cura durante le pestilenze.
Fernando III dotò splendidamente anche il Consiglio Comunale di Siviglia che in seguito eserciterà la sua autorità e giurisdizione
sopra tutto il Regno di Siviglia, comprendente le province di Siviglia e di Huelva, parte di quelle di Cadice, Malaga e Badajoz, in tutto 16 città, 162 paesi, 64 villaggi e 25 luoghi.
RE FERNANDO S’INTRATTIENE CON IL FIGLIO ALFONSO
Fernando parlava al figlio Alfonso dell’importanza del sapere e delle scuole che lo detenevano. Gli disse che nel 1220, quando era ancora giovane, egli aveva chiesto ed ottenuto da papa Onorio III il permesso di pagare i maestri della scuola di Palencia, la più antica della Penisola Iberica, con un quarto dei proventi destinati alla manutenzione dei fabbricati di proprietà ecclesiastica, perchè a suo parere cultura e scienza rivestivano una grande importanza.
Aggiunse che aveva dato impulso alle Scuole de Estudio General del Reino de León , fondate a Salamanca e chiese al figlio di promuoverne l’importanza e, per quanto possibile, di moltiplicarle.
Padre e figlio sedevano come vecchi amici in un’ampia sala alle cui pareti erano incuneate mensole gremite di pergamene antiche, di trattati di filosofia, arte, geografia e storia, scritti dei padri della chiesa, vangeli di gran valore. Erano opere sia di autori spagnoli che di altri paesi d’Europa.
Quella biblioteca assai fornita era custodita da un vecchio e nobile castigliano, un tipo molto gentile e fidato. Corpulento e calvo aveva un viso gioviale dietro il quale si celava una mente analitica di primissimo ordine. Oltre che custode era anche uno studioso di antichi testi greci e latini e si può tranquillamente affermare che la biblioteca era la sua casa, quella in cui trascorreva moltissime ore del giorno. Al momento sedeva su una delle comode panche di legno messe a disposizione degli studiosi che volevano consultare gli scritti e teneva gli occhi chiusi per concedere alla mente affaticata un paio di minuti di tregua.
“Questa è la biblioteca ove conservo gli scritti di grandi studiosi dell’antichità e sono archiviate canzoni e storie a me care. Se avessi più tempo a disposizione trascorrerei qui ore ed ore in lettura. Dopo la mia morte potrai ampliarla se vorrai. Ti sforzerai di diffondere il sapere a corte ed a beneficio del nostro popolo?”
Guardando il padre con orgoglio e tenerezza Alfonso rispose:” Ti prometto che porterò avanti le opere da te iniziate e farò tutto ciò che sarà in mio potere per dare lustro al nostro grande impero. Farò redigere cronache e trattati politici, racconterò le tue gloriose imprese. La mia politica monarchica e nazionalista emulerà quella di Federico II° di Hohenstaufen e quella di mio suocero Guglielmo il Conquistatore e seguirò l’esempio di fede e pietà che Luigi IX di Francia ci ha dato, ma ti prego di non parlare di morte con me! Il solo pensiero, padre mio, mi rattrista!”
“La morte è il proseguimento della vita, una vita piena e trasformata, Alfonso! Ti assicuro che non la temo e neppure tu dovrai temerla se sarai un sovrano retto e coltiverai la fede in Dio, in Gesù e Maria, la nostra grande protettrice!”, soggiunse Fernando.
Rimasero in silenzio per lunghi minuti, poi uscirono dirigendosi insieme verso un campo su cui si stava svolgendo l’allenamento di uomini in armi: fragore d’acciaio contro l’acciaio, sibili di frecce scagliate contro grigi pupazzi imbottiti, grida di uomini impegnati in duello. Nel rumore confuso ogni gruppo in allenamento seguiva il proprio ritmo ed il proprio schema. Gli uomini erano armati di spade, mazze, picche, scudi di ogni dimensione ed indossavano armature ed elmetti.
“Farò di tutto per diventare un sovrano degno della tua fama, padre!”, così dicendo Alfonso tese la mano a Fernando che gliela strinse con affetto.
VITA ESEMPLARE DI FERNANDO
Può un rampollo nato da un matrimonio tra parenti(tra Alfonso IXdi León e doña Berenguela, figlia di Alfonso VIII) ed annullato da papa Innocenzo III nel 1204, divenire santo?
Sembra proprio di sì. Da ragazzo Fernando avrebbe voluto abbracciare lo stato ecclesiastico, ma Dio aveva disposto diversamente e lo volle un santo re. La figura di Fernando III è un grande esempio di santità secolare e piena di attrattive umane.
Fernando, che in tedesco significa “guerriero audace”, non fu solo un grande conquistatore, ma un saggio e solerte amministratore del suo regno e difensore della fede.
Egli incarna il compimento miracoloso della storia nazionale ed imperiale in quanto è il più grande ed ultimo dei re crociati, quasi una leggenda. Fernando III insistette con spirito missionario sulla sua doppia politica di castiglianizzazione e cristianizzazione degli Andalusi. Nel re crociato e nel re santo si fonde l’ideologia dell’espansione castigliana con la restaurazione cristiana. Entrambi gli aspetti concorsero a formare una possente autorità reale ed imperiale volta a togliere la Spagna dal potere dell’oppressione di coloro che erano contrari alla fede di Cristo.
Egli menava una vita spartana, mangiava in modo frugale, pregava molto, non era un semplice comandante di soldati, ma si interessava a loro. Alloggiava molto spesso nell’accampamento per sincerarsi di come andavano le cose. A quanti si dichiaravano stanchi della vita d’accampamento e delle campagne militari dava la possibilità di ritirarsi e di ritornare alle proprie case con una congrua somma di danaro perchè potessero continuare a svolgere l’attività interrotta prima dell’ingaggio.
Fernando non conobbe né il vizio, né l’ozio e questa diligenza e rettitudine era alimentata dal suo spirito di preghiera. Che dire delle sue veglie di penitenza nelle quali si sentivano voci angeliche? Rimasto a Toledo, poiché infermo, vegliava di notte implorando l’aiuto di Dio per il suo popolo. “ Se io non veglio, come potreste voi dormire tranquilli?”, replicava a coloro che gli chiedevano di riposare.
La sua pietà, come quella di tutti i santi, si esplicava nella devozione al Santissimo Sacramento ed alla Vergine Maria.
Imitando i cavalieri del suo tempo che portavano con sé una reliquia della propria dama, Fernando portava, tenuta ferma con un anello all’arcione del suo cavallo, un’immagine in avorio di Santa Maria, la Venerabile “ Vergine delle Battaglie” che si conserva a Siviglia.
Al campo recitava l’Ufficio Mariano, antenato medievale del Santo Rosario, e spesso invitava altri a recitarlo.
Durante l’assedio di Siviglia fece erigere nell’accampamento una cappella permanente per ospitare l’immagine patrona del suo esercito. Era questa la Vergine dei Re, che ha oggi una splendida cappella nella cattedrale sivigliana.
Rinunciando ad entrare da vincitore nella capitale dell’Andalusia, lasciò a questa immagine l’onore d’essere a capo del corteo trionfale, quindi l’Andalusia deve a lui la sua devozione mariana.
Re Fernando annoverava, tra le altre virtù, la diligenza che, in altre parole significa amore. Egli amava nei fatti mentre molti amano solo a parole. La sua diligenza era carità operante e questo è forse il più grande esempio morale che egli ha lasciato al suo popolo.
La sua figura, tutta particolare, ha sempre rapito l’interesse e l’anima sia del popolo che degli storici. Austero e ligio al dovere, sembra che non lasciasse l’accampamento neppure per assistere allo sposalizio del suo erede né quando venne a conoscenza della morte della madre. Eccessivo senso del dovere e della sua missione di condottiero?
Il figlio Alfonso X si riferirà più volte a suo padre chiamandolo il “Santo Guardiano di Siviglia che ci guida e aiuta contro i mori”.
Coronando la sua crociata, infermo e prossimo a morire, si autoproclamava “ Cavaliere di Cristo, Servo di Santa Maria, Alfiere di San Giacomo”. Queste sue parole erano tutte avvolte da espressioni di adorazione e di gratitudine a Dio per l’edificazione del suo popolo.
Fu un re magnanimo: Padre Retana, nella sua particolareggiata biografia, scrisse che rispettava tutti coloro che gli si dichiaravano vassalli, non si rivolgeva contro gli avversari mori vinti, rispettava la tregue ed i patti ed era abile diplomatico. Qualche suo vassallo abbracciò in segreto la fede cristiana, edificato dalla condotta e dai costumi del re. In tal senso Fernando III rappresenta l’antitesi cavalleresca del “Principe” di Machiavelli.
Il Santo Re non fu né un frate a palazzo, né un baciapile. In una società cortigiana e di costumi molto rilassati, egli era quello che oggi chiameremmo uno sportivo: elegante cavallerizzo e buon cacciatore.
Gli piacevano i giochi da salotto, la dama e gli scacchi, talvolta indiceva tornei, amava la buona musica e cantava bene.
Alla sua corte la musica aveva un valore uguale se non maggiore che alla corte parigina di suo cugino, San Luigi, tanto era importante!
“ La musica è un balsamo che cura ed edifica l’anima”, era solito ripetere con convinzione Fernando. Uno dei suoi numerosi figli, don Sancho, aveva una gran bella voce, educata ed esercitata in seno alla famiglia e spesso cantava a corte.
Scopriamo che Fernando compose alcuni cantici, uno dei quali, molto bello, alla Santa Vergine. Avendo pure inclinazione poetica scrisse versi in onore della prima moglie defunta ch’egli aveva amato molto.
Il sovrano univa all’innata cortesia, eleganza nel portamento, misura nell’incedere e nel parlare, doti di conversazione e piacevolezza nel poco tempo che dedicava ai passatempi.
Amava l’arte e, come già detto, la Spagna gli è debitrice delle sue più belle cattedrali. Quindi sportivo, cortigiano, musico, poeta, cavaliere professo: una bella scala di valori umani che ce lo configurano come un nobile esempio di nobile medievale.
Come governante fu ad un tempo stesso severo e benigno, energico ed umile, audace e paziente, garbato con i cortigiani.
In una società di costumi licenziosi e di soprusi e prepotenze, egli diede esempio di generosità verso i poveri e si sacrificò personalmente guadagnandosi l’unanime stima dei suoi figli, dei prelati, dei nobili e del popolo.
Fu avversato da pochi, prevalentemente da signori turbolenti, invidiosi e gretti che vedevano in lui un uomo retto e difensore degli emarginati.
Fernando fu lo Spagnolo più illustre del XIII secolo e, insieme ad Isabella la Cattolica, forse la figura più completa di tutta la storia politica del suo paese, in quanto coniugò in sé pietà, prudenza ed eroismo.
Fernando III e Luigi IX di Francia percorsero un difficile cammino verso la santità: Fernando nel segno del trionfo terreno in quanto egli non conobbe sconfitte, ma trionfò in tutte le sue imprese, Luigi IX nella sventura e nel fallimento. Entrambi la raggiunsero santificando la loro carica ed il loro ufficio, inoltre Fernando sembra posto nella storia allo scopo di tonificare lo spirito collettivo degli Spagnoli in un momento di depressione spirituale.
La freddissima critica storica fa il racconto documentale di una vita che sbalordisce, dedita con cura e costanza al servizio del popolo per amore di Dio.
Patì molto e morì a causa delle grandi fatiche e rinunce cui si sottopose come guida del regno e dei suoi soldati.
Persino Al Himyari, storico musulmano e suo acerrimo avversario, ebbe ad affermare che Fernando era un “uomo dolce con senso politico”.
Il sovrano, oltre a nutrire affetto filiale verso la madre, dona Berenguela, aveva di lei grande stima. Riferì ai figli queste parole della nobildonna:” Nè nobiltà di stirpe, né grazia, né abilità nel combattere, né forza, né eloquenza offrono alla vita tanta serenità e calma quanta ne offre un’anima limpida, scevra da passioni turpi.
Da essa scaturiscono le nobili azioni che danno lustro al regno e lasciano al popolo un ricordo dolce e saldo di onestà.
Coloro che cercano la pratica della vita, sappiano che la cosa più redditizia è comprendere quando si pensa realmente con la propria testa e quando si è invece suggestionati e condizionati dagli altri.
Solo tale consapevolezza può rendere la pace al vivere”.
CORDOBA E I MUSULMANI
Fernando ed Alfonso de Molina si sottoponevano sempre ad un severo addestramento che li impegnava molte ore al giorno.
Le settimane precedenti all’assedio di Cordoba erano trascorse molto lentamente divenendo una lunga attesa.
I cavalieri duellavano spesso semplicemente per esercitarsi e non per ferire. Attaccavano gagliardamente e dall’urto delle lame sprizzavano scintille. Alfonso de Molina parava ogni colpo con grande concentrazione, ma alla fine i duellanti si stancavano e decidevano di smettere e riposarsi.
Fernando ed il fratello Alfonso, reduce da una brutta ferita al braccio sinistro che non era ancora del tutto guarita, cavalcavano appaiati alla luce del crepuscolo mentre la sera avanzava con la sua pesante cappa nera.
Dopo aver cavalcato per tutto il pomeriggio con una parte dell’esercito, si fermarono ad accamparsi per la notte a ridosso di una serie di collinette punteggiate da cactus e su erba fitta, corta e terra sassosa.
Stava a guardarli Cordoba, gran bella città ai piedi della Sierra Morena ed anche vicina al fiume Guadalquivir.
Il mattino seguente aleggiava una leggera foschia che impediva di vedere in lontananza, poi cominciò a soffiare una brezza sostenuta che dissipò il velo grigio mostrando la città, cinta da spesse mura con file di feritoie rettangolari e un cammino di ronda per i soldati e le sentinelle.
Fernando conosceva bene la forza dei musulmani che, protetti da una cotta di maglia a doppio spessore e lunga fino alle gambe del cavaliere, erano armati di una temibile spada indiana(hinduwānī) e montavano cavalli molto agili e veloci. I cavalieri musulmani(thaghrī) lasciavano nei loro nemici un’impressione profonda di ferocia.
Fernando diceva sempre “ Le truppe musulmane sono temibili e ben organizzate come le nostre”.
Le loro armi, infatti, non si discostavano da quelle dei Castigliani.
Se i cavalieri utilizzavano una lancia, i fanti combattevano con la daga, il pugnale, la fionda ed il giavellotto. Gli archi si usavano tanto a piedi come a cavallo e si distinguevano in “arabo”, “turco” e “franco”.
L’arma più comune era la lancia e la spada godeva di grande considerazione in tutto il mondo islamico, specie quella indiana, chiamata così anche se fabbricata in Spagna. Al-Andalus era infatti un centro di produzione d’armi molto importante se è vero che nella Penisola Iberica si trovava il cuoio con cui si preparavano anche le impugnature delle spade, spesso ornate di disegni simili a quelli di una pigna. La spada era il principale strumento di difesa dopo la cotta di maglia, il casco metallico con visiera(baida) per proteggere la testa ed il cappuccio di maglia(mighfar, da cui lo spagnolo almofar) o l’elmo di ferro(tishtaniye), dal basso latino testinia. L’arma difensiva maggiormente impiegata dall’esercito andaluso era lo scudo leggero in cuoio di piccole dimensioni( quello del cavaliere) e montato su un’armatura di legno. Lo scudo del fante(turs) era di legno, ma provvisto di placche di ferro per parare i colpi dell’avversario.
La gerarchia militare dell’esercito musulmano era osservata rigidamente. Ogni corpo di truppa constava di cinquemila uomini ed era comandato da un generale(amīr) cui era affidata una grande bandiera(ráya) e ai suoi ordini vi erano cinque contingenti di mille uomini ciascuno, ognuno comandato da un ufficiale di alto rango che portava una bandiera più piccola. Ogni contingente di mille elementi era poi suddiviso in cinque gruppi di duecento uomini che dipendevano da un capitano(naqīb) cui era affidato uno stendardo. Ciascun gruppo di cinquecento uomini era suddiviso in cinque sezioni di quaranta elementi agli ordini di un ufficiale subalterno(‘arif) che reggeva uno stendardo più piccolo.
Le cinque sezioni erano ulteriormente divise in cinque squadre di otto soldati ciascuna, comandate da un sergente(nazīr) che teneva annodata un’insegna alla sua lancia.
Fernando III si trovava a fronteggiare la guerra di pianura praticata dall’Islam con la vecchia tattica di cariche di cavalleria seguite da bruschi ripiegamenti. Anche il re adottò tale tattica che, in castigliano, assunse il nome di torna fuye. Naturalmente, in un paese accidentato come la Spagna, tale tattica poteva essere utilizzata solo raramente. Comunque il tipo di spedizione armata musulmana rimase l’incursione rapida in territorio nemico con lo scopo di devastare i raccolti e saccheggiare tutto quanto era possibile: viveri, bestiame, uomini, oggetti d’oro e soprattutto schiavi di ambo i sessi.
Il mercato di schiavi di Cordoba era inondato periodicamente da prigioniere cristiane ed uomini di ogni estrazione: chierici, monaci e normali lavoratori specie se robusti. I prigionieri di guerra, che i musulmani o i cristiani facevano schiavi, erano spesso oggetto dei negoziazione o di scambi.
La guerra di movimento, sia musulmana che cristiana, era accompagnata dalla guerra d’assedio(hisār) nell’organizzare la quale Fernando III fu maestro e di cui si giovò ampiamente.
Da un luogo all’altro della frontiera c’era necessità di controllo territoriale e di accaparrarsi quindi roccaforti e spazi urbani. Le fortezze mantenevano il controllo su una determinata porzione di territorio occupata da una comunità rurale ed i cui confini erano perlopiù definiti da limitazioni naturali.
In Spagna, come in altra parti d’Europa, sorgevano cittadelle fortificate, qualcosa di intermedio tra un castello ed una città. L’alcalá castigliana era dunque castello o forte.
La cura di tali fortificazioni spettava all’esercito che si incaricava di esaminare muraglie e torri, ma anche di restaurare le parti cadute degli edifici e le fortificazioni delle torri.
Il pericolo maggiore rimaneva l’assedio, quindi ciò che contava davvero erano le mura. Da esse gli assediati potevano tentare l’estrema difesa, poiché erano le mura che gli assalitori dovevano violare attraverso agevoli luoghi di passaggio o con incendi e colpi d’ariete. Dalle mura si poteva lanciare di tutto contro il nemico: frecce, sassi, teste mozzate, carcasse di animali,materiale incendiario, oggetti contundenti e spesso ci volevano mesi perchè gli assediati, che si battevano coraggiosamente come leoni, s’arrendessero affamati, disperati e decimati.
E anche Cordoba si arrese al lungo assedio delle forze di Fernando III nell’anno 1236, anche a causa del tradimento di Banū Hūd che non le inviò gli aiuti promessi.
MORTE DI FERNANDO III
Era il maggio 1252 ed un manto di tristezza calava su Siviglia mentre si confermavano le voci che il re era stato colpito da una malattia mortale.
Egli morì il 30 maggio, a 53 anni di età e 34 di regno, consumato dall’idropisia contratta durante la lunga e faticosa vita militare. Spirò circondato da tutti i dignitari di corte nella pace invidiabile del giusto.
Umile qual’era ed amante della natura, gli sarebbe piaciuto attendere l’eternità in uno scenario più idilliaco che in quello della cattedrale di Siviglia, magari tra le pietre tombali ricoperte di muschio e con i nomi quasi indecifrabili, distese nella pace senza tempo dietro la chiesetta di un piccolo villaggio, ma era stato un grande sovrano e doveva riposare vicino a quelli della sua illustre famiglia.
Sentendo che era giunta l’ora di ingaggiare l’ultima e più grande battaglia della sua vita, egli volle dare un esempio di umiltà e devozione indispensabile a tutti i cristiani e soprattutto ai governanti.
Lasciò il sontuoso letto reale e si sdraiò per terra su un cumulo di cenere con una corda al collo ed una candela accesa tra le mani.
Fece chiamare la regina ed i figli dai quali si congedò dopo aver dato saggi consigli a ciascuno.
Affermò a buona ragione Menendez Pelayo. “ Il transito di Fernando IIIoscurò e rese piccola la grandezza della sua vita”.
Egli chiese sinceramente perdono a tutti i presenti per qualche involontaria offesa che potesse aver fatto loro.
Entrarono i chierici portando i Sacramenti: L’Unzione degli infermi ed il Santo Viatico che il re accolse con intenso fervore.
Si trattene affettuosamente per qualche minuto con un frate francescano che, venuto a salutarlo per l’ultima volta, si era avvicinato al suo capezzale sostenendosi ad un lungo bastone
ricurvo. Il frate, che aveva il naso aquilino e portava una lunga barba bianca, indossava un saio marrone col cappuccio e dalla logora cintura di pelle scendeva la sua bisaccia per la questua.
Il re stesso apparteneva al Terzo Ordine Francescano Secolare e l’umile frate era sempre stato suo buon amico e conosceva bene il suo cuore.
Al principe Alfonso, erede al trono, Fernando raccomandò:” Abbi timor di Dio e prendilo sempre a testimone di tutte le tue azioni pubbliche, private e politiche”. Con tali parole egli indicava al figlio la via che lui stesso aveva seguito e che reputava l’unica praticabile.
Poi a tutti, regina e figli, disse con un filo di voce:” L’importante è fare, il valore consiste nell’atto. I vostri pensieri siano puri e liberi, infatti si può essere liberi eppure vivere in ceppi peggiori di uno schiavo. Trattate tutti con giustizia per non attirarvi vendetta. Tenetevi ancorati alla fede e gli altri vi ascolteranno”.
Alzata la candela accesa, la riverì come simbolo dello Spirito Santo e chiese ai chierici di intonare il Te Deum Laudamus, spirò così serenamente per ricevere in Cielo la meritata ricompensa.
La notizia della sua morte sparse il pianto per le vie di Siviglia e del regno. Piangevano i soldati la perdita del loro valoroso comandante, mai sconfitto in combattimento, piangeva il popolo che vedeva in lui il protettore dei deboli e dei poveri, re saggio e giudice giusto. Il clero piangeva la scomparsa del campione della fede, dello sposo e padre esemplare, dell’uomo dalla vita personale inattaccabile.
Papa Gregorio IX lo proclamò “Atleta di Cristo” ed Innocenzo IV gli diede il titolo di “Campione invitto di Gesù Cristo”.
Re Fernando non volle che si scolpisse la sua statua in posizione giacente. Egli fu sepolto nella magnifica cattedrale di Siviglia, non vestito con i ricchi abiti regali, ma con l’abito del Terzo Ordine di San Francesco.
Nel suo epitaffio si legge questo significativo elogio:” Qui giace il più onorato Re, Don Fernando, Signore di Castiglia e di León, della Galizia, di Siviglia, Córdoba, Murcia e Jaén. Il più leale, il più autentico, il più notevole, il più umile, colui che più temeva Dio e più gli prestava servizio. Colui che fiaccò e distrusse tutti i suoi nemici, che riunì tutti i suoi amici e conquistò la città di Siviglia che è a capo di tutta la Spagna”.
Il figlio Alfonso IX progettò per lui una tomba nuova e più sontuosa nella cattedrale sivigliana e trasferì là anche i resti di sua madre, Beatrice di Svevia, dalla quale gli provenivano i suoi diritti al trono imperiale e quelli di sua nonna, doña Berenguela.
FERNANDO III, SANTO RE
Fernando III aveva dato avvio alla creazione di una città cristiana dopo l’espulsione della popolazione musulmana e quindi egli fu molto rispettato dai Sivigliani ed il suo antico regno e la sua conquista gli hanno conferito un’aureola di santità.
Anche se la devozione al Santo Re non risulta confermata canonicamente in nessun documento, essa sorse per uso e tradizione.
Comunque sia San Fernando permane nel linguaggio della gente della città, nel suo cuore e nella sua storia.
Egli fu canonizzato dal popolo, che gli conferiva titolo e culto di santo, prima ancora che dalla chiesa di Roma, nonostante che i papi Innocenzo IV, Alessandro VI e Sisto V concedessero indulgenze e quest’ultimo avesse decretato che, per eccellenza di vita e virtù, Fernando meritava la fama di santo.
Nondimeno la devozione popolare verso Fernando crebbe e, dalla metà del XIV secolo, arrivò ad essere una devozione molto importante che dava lustro a Siviglia ed attirava molti pellegrini.
Dall’epoca dei Visigoti le due maggiori città della Spagna erano Toledo e Siviglia. La prima si era disputata il primato con gli arcivescovi Leandro ed Isidoro di Siviglia quantunque fosse di Toledo la sede della corte visigota e dei concili spagnoli.
A quel tempo possedere le reliquie di apostoli, santi e martiri cristiani accresceva l’importanza della città e, possedere il corpo incorrotto di Sant’Isidoro, rappresentava un forte capitale simbolico tanto che, poco prima della conquista di Siviglia da parte dei cristiani, si negoziò con il governo musulmano il trasferimento dei resti di Sant’Isidoro nella città di Léon.
Anche il corpo di Fernando III si conservava incorrotto, non imbalsamato e questo fatto, accertato come soprannaturale, risultò determinante nel processo di canonizzazione.
Si narrano molti avvenimenti che attestano come, durante il regno di Fernando, ci furono grandi segni della protezione divina che assicuravano che la Castiglia e León non avrebbe patito né per la fame, né per altre calamità.
Ci sono prove che a Siviglia ed in altre città della Spagna Fernando era considerato santo già a pochi anni dalla sua morte.
Il compendio più significativo dei miracoli attribuiti al Re Crociato è quello del bacelliere Luis de Peraza che visse tra il XV ed il XVI secolo. Egli narra quindici miracoli: si parla di ritrovamenti di animali persi, di schiavi e mori fuggiaschi, della salvezza di imputati innocenti condannati a morte.
Esiste una tradizione leggendaria ed ininterrotta circa le sue azioni soprannaturali a favore dei poveri e dei malati che furono riconosciute dalla Sacra Congregazione dei Riti nel processo di canonizzazione.
I re che succedettero a Fernando III misero grande impegno perchè egli fosse elevato agli onori degli altari in quanto ciò conferiva autorità alla dinastia reale e la rafforzava nei confronti del papato, dei Francesi e dei musulmani, però non conseguirono il loro scopo.
Roma non ne voleva sapere di un re santo spagnolo e tanto meno gli altri regni sottomessi alla corona di Castiglia.
Fernando III rimane comunque il santo dei Sivigliani e non quello della Chiesa.
Non troviamo edicole votive a lui dedicate ai crocicchi delle strade cittadine e non mi riferisco ai tabernacoli monumentali, ma alle are benedette che mettono i devoti in diretto contatto con i santi della Chiesa.
Ciò, a mio parere, è dovuto al fatto che Fernando è principalmente il Santo Guerriero della città e della terra di Spagna e non della Santa Madre Chiesa che ne ha a lungo procrastinato la canonizzazione.
Don Remondo, primo arcivescovo, segretario e confessore del re, cui era debitore della sede arcivescovile e neppure gli arcivescovi suoi successori promossero la canonizzazione di Fernando III.
I vescovi ausiliari, che potevano ordinare o proibire i libri su i suoi miracoli da cui si potevano scegliere quelli più idonei, non lo fecero per opposizione o indifferenza.
Un sacerdote storiografo, che narrò molti miracoli ottenuti per intercessione del Santo Re, non si spiegava il motivo dell’ingratitudine del clero che non aveva chiesto al Papa di canonizzarlo. Sosteneva anche che la Chiesa non doveva dubitare del fatto che Fernando fosse stato accolto da Dio nel Coro Celeste in compagnia dei Suoi più eccellenti servi.
Anche il cronista Ortiz de Zuñiga si chiese il motivo del ritardo nel riconoscere la santità di Re Fernando, sebbene si fossero generate nel tempo storie miracolose come quella che narra che, durante l’assedio di Siviglia, il re entrò di notte della città e si mise a pregare davanti ad un dipinto che rappresentava la Vergine di Antigua, che però era conservato nella sinagoga.
Questo miracolo ha le caratteristiche del fenomeno della bilocazione, fenomeno per cui i santi si trovano simultaneamente in due luoghi diversi e distanti tra loro. Si parlava anche di invisibilità e di attraversamento di porte chiuse da parte del sovrano.
Nel secolo XVI Lucio Marineo Sículo scriveva:” Don Fernando di Spagna si pone a ragione nell’elenco dei santi per le sue opere, la sua religiosità ed i suoi miracoli. Fu un modello di principe cristiano, valoroso e prudente, versato fin da ragazzo negli affari di Stato, amò con tutto il cuore la Santa Vergine Maria e ne intronizzò tre immagini nella cattedrale di Siviglia: quella della Sede, dei Re e delle Battaglie, poi quella dell’Acqua nella chiesa del Salvator e quella del Valme nell’eremo vicino.
FINALMENTE LA CANONIZZAZIONE!
La canonizzazione non fu più domandata al papa fino al secolo XVII e la dinastia reale favorì la cattedrale di Toledo a danno di quella di Siviglia. Le due forze che potevano accelerarla, cioè i discendenti ed il clero cittadino, non l’appoggiarono.
La causa per la canonizzazione di Fernando III iniziò nel 1668 ed egli fu elevato agli onori degli altari il 4 Febbraio 1671 da papa Clemente X grazie anche all’impegno assunto dal re Filippo IV.
In precedenza era stata messa in atto tutta una strategia diplomatica e di pubblicazioni circa i meriti del candidato.
In verità nel XIV secolo si era attuata una trasformazione venendo approvato il culto del Santo Re da parte delle classi dirigenti. Così Fernando fu eletto patrono della fertilità agricola, invocato per trovare oggetti perduti, per la liberazione dei prigionieri, la guarigione dalle infermità e l’arma dei genieri dell’esercito lo elesse a suo patrono.
Questo nuovo culto non era disgiunto dalla visione dell’elite che nel secolo XIII lo aveva dichiarato Re Conquistatore come dimostra la spada che ha sempre accompagnato la reliquia.
Ancor prima della canonizzazione, il corredo funerario, le vesti e parti del corpo del re furono fatti a pezzi per ottenere reliquie di colui, che una volta giunto al processo di canonizzazione, già si presumeva santo.
Nel medioevo si attuò una vergognosa spartizione delle reliquie: frammenti di tibie, falangi, alluci, mandibole, crani, denti, lembi di tessuti ed una gran moltitudine di oggetti, che si pensava appartenuti ad un santo o ad una santa, furono divisi senza regole tra le varie chiese per dar lustro a questa o quella città, per imporre il proprio ordine religioso, ma soprattutto per arricchirsi.
Anche in Spagna fu guerra per la supremazia di una città, di una basilica o abbazia su un’altra che divennero, e sono ancor oggi, meta di pellegrinaggi e propulsore economico. Essere in possesso di una reliquia equivaleva a possedere la sua potenza su uomini e cose. Custodire ed accudire gli ossari era un mezzo per mettere in contatto i viventi con l’aldilà.
La guerra delle reliquie generò un commercio smisurato ed ogni angolo d’Europa fu invaso da resti sacri, interi o in porzioni, di chiodi, punte ed aste di lancia, campioni del latte di Maria, filamenti delle sue vesti, pezzettini della Croce e talmente tante spine della Corona di Gesù che, messe insieme, avrebbero potuto riempire un bastimento! Fu un vergognoso arricchimento di tanti ecclesiastici a scapito dei fedeli.
La figura di Fernando III Il Santo o San Fernando, denominazioni che corrispondono alle tappe prima e dopo la canonizzazione, ha fatto germogliare a Siviglia immagini di carattere panegirico.
La presenza del suo nome in città è davvero copiosa e fa di lui un Santo Cittadino. Portano il suo nome: la strada aperta nel XVIII secolo per dare accesso alla fabbrica dei tabacchi, oggi università,
la parte più moderna della città che è circondata da mura, la piazza centrale sulla quale si erge una statua equestre del re, l’unico cimitero di Siviglia, costruito nel secolo XIV, un quartiere, una cattedra speciale dell’università, una Cassa di Risparmio, un teatro, una scuola superiore, un hotel di lusso ed altri luoghi ancora.
La Fondazione Universitaria San Paolo, CEU e la Compagnia di Gesù hanno annunciato che intitoleranno a “ Fernando III” l’università che sarà aperta prossimamente nell’area metropolitana di Siviglia.
Santo della città, egli figura da tempo immemorabile nel sigillo , nel suo scudo insieme ai santi Leandro ed Isidoro e nello stendardo.
L’interesse ufficiale per la figura del Re Conquistatore è dimostrato dai numerosi incontri scientifici realizzati a Siviglia.